Credevo di essere in salvo.
Alla fine della corsia fui catapultato fuori. Luci abbaglianti impedivano di vedere.
Ed eccomi davanti alla seconda porta, quella di corno alla quale credevo di aver rinunciato.
Sulla porta un cartello.
-Lo hai scritto per me?
-No, non credo proprio.
-Eppure me lo sono sentito addosso.
-L’ho scritto ma non ti ho pensato.
-Ma tu mi ami?
-Senza di te non esisterei; forse per questo ti amo.
-Ma se io non esisto nei tuoi pensieri, come farai a scrivere per me?
-Non credo di scrivere per te, proprio per te, sei tu che dopo mi scegli.
-Dici?
-Penso. Alcuni ne amano svariati, altri pochi, altri per niente. Come lo spieghi se non attraverso una scelta?
-Empatica?
-Può darsi.
-Mai io mi sono riconosciuto o forse volevo credere che io fossi stato il tuo modello…
-Non indagare altro.
Avevo appena terminato di leggere le ultime sillabe che la porta si aprì.
Credevo di essere precipitato all’inferno.
Una ridda di persone si muoveva in un enorme stanzone dalle pareti altissime.
Donne, bambini, vecchi e cavalieri e dame e folletti e hobbit e musici e attori e saltimbanchi e straccioni e…
Troppi, tanti. Ma dove ero finito?
Mi fermai un attimo al centro dello stanzone. Quelle che in un primo momento mi erano sembrate pareti altissime in realtà erano imponenti scaffali dal pavimento al soffitto pieni fitti fitti di qualcosa che non distinguevo benissimo, ma che uno degli abitanti di quella strana città mi aiutò a capire, sfilandolo dalla parete a me più vicina: libri.
Ero dentro un’immensa biblioteca.
Come dire? Non è facile da raccontare con le parole.
Ogni lettore estratto il libro dalla parete iniziava a leggere e piano piano, come in una metamorfosi al rallentatore, si trasformava: a volte prima le mani, altre il volto, poi gli abiti e quindi il modo di fare e di parlare.
Tutte le lingue del mondo risuonavano tra le pareti di libri.
Non era possibile interromperli; ciascun lettore-personaggio viveva di vita propria, ritornavano lettori solo dopo un po’ che il libro era stato terminato e chiuso definitivamente.
Alcuni infatti sembravano riluttanti a voler abbandonare quelle pagine e le sfogliavano e le carezzavano e le baciavano.
Ma il processo ricominciava quando il lettore entrava in un nuovo racconto sfilandolo dalle grandi pareti.
Da quanto tempo erano lì? Inutile chiederglielo: possedevano la chiave per l’immortalità.
E poi i miei personaggi preferiti mi vennero incontro, amici dimenticati ma subito riconosciuti.
Dovevo trovare l’uscita.
Dovevo tornare dal mio amico smemorato. Glielo dovevo. Grazie a lui il mio era stato un viaggio memorabile.
Vedo una porta, dirimpettaia di quella da cui sono entrato.
Per arrivarci devo attraversare l’imponente stanzone e nuovi particolari mi si chiariscono. Lunghe e alte scale sono accanto a ciascuna parete scaffale e si alzano e si abbassano automaticamente senza alcuno sforzo da parte del lettore. Sembrano guidate da un loro automatismo, quasi sapessero perfettamente dove trovare il libro prescelto.
Mi giro. Guardo come per un saluto finale.
Apro la porta e sono fuori.
Perché tornare dal mio smemorato? Eppure lo sento come un obbligo che mi sprona ad andare e sempre più in fretta.
Lui non c’è più al tavolo a cui lo avevo lasciato.
Una profonda delusione mi assale.
Era probabile, come non averci pensato?
Qualcuno mi chiama e mi saluta festoso.
È seduto al posto del mio smemorato.
Lo guardo. Gli assomiglia tanto, solo è un po’ più vecchio.
Mi avvicino: non sono stupito, è come se mi guardassi allo specchio.
Anche lui mi guarda e mi dice – Sei tornato, ti ho aspettato.
Cari amici lettori, il viaggiastorie vi saluta, fa un inchino e se ne va.
Felice viaggio a tutti!