Un giovane era seduto al bar davanti a un cocktail pesante, così immaginai dalla sua espressione quando ne mandava giù un sorso: spingeva le labbra prima in avanti per poi risucchiarle in dentro, come fosse chiedere troppo tenerle sporgenti.
Mi sono stupito: alla dieci del mattino, un cocktail?
-Buongiorno – gli dissi avvicinandomi. Avrei voluto un approccio meno formale, mi pareva di conoscerlo da tempo.
-Buongiorno – mi rispose guardandomi dritto negli occhi e aggiunse – sto affogando la mia mancata giovinezza.
-Mancata? Ma sei giovane!
-Anche tu sei convinto che basti essere anagraficamente giovani? Ti sbagli.
-Ma cosa ti è successo di tanto terribile, da considerarla mancata?
-Non lo so – non ho ricordi, qualche flash qua e là, ma tutti uguali, probabilmente sempre gli stessi con qualche minima variante.
-Spaventoso! Come fai a sopravvivere senza nemmeno un ricordo?
-È un buco nero che si porta via tutto, in un vorticoso vorticare.
-Bello il vorticoso vorticare! Ma tu dove sei, in fondo o stai vorticando?
-Non lo so, non mi vedo.
-Prova a cercare, forse trovi qualcosa, un oggetto, una parola, un odore che ti richiami alla memoria un ricordo, anche piccolo…
-Io ci provo, ma in questo roteare non c’è niente.
-E perché bevi?
-Si beve per dimenticare ma, avendo dimenticato, se bevo forse posso ricordare.
-L’idea non è male!
-Hai presente il tè di Alice? Bene, è come se quell’unico ritaglio che ho in memoria si ripetesse all’infinito.
-Cerchiamo allora in quel ritaglio, proviamo a ingrandirlo, forse possiamo scoprire un particolare che ti è sfuggito; a furia di vedere sempre la stessa scena pensi di conoscerla bene, invece …
-Proverò.
-Stai guardando con maggiore attenzione? Allora, cosa vedi? Raccontami con tutti i particolari.
-Vedo me che corro, corro, corro…
-Sì, ma con chi, verso dove, per quale motivo?
-Non si vede, ma ho il fiatone e forse ho anche paura…
-Ma davanti a te cosa vedi?
-Una montagna altissima e variopinta.
-Ti piace andare verso quella montagna? Non potresti fermati o tornare indietro?
-Non posso, sento che sono costretto a correre e che devo raggiungere quella montagna, ma nello stesso tempo tremo all’idea di raggiungerla.
-Un vero mistero: la montagna è ripida o si può scalare oppure aggirare o scavalcare?
-È ripida ma è bella, devo andare lassù, lassù si sta bene; c’è altra gente che corre e tutti salgono salgono; qualcuno è anche quasi arrivato in cima, ma…
-Che succede? Racconta ancora, cosa vedi?
-Non vedo, tutto si è annebbiato: mi pare che in cima siano davvero pochi, in basso tanti e sono tutti sdraiati e ridono, ridono a crepapelle, sono piegati in due dal ridere.
-Forse non vale la pena affannarsi tanto per restare ai piedi di una montagna che fa morire dal ridere… e perché correre? Non è vero che arrivi prima; rischi di non arrivare o di arrivare stanco e ti sei perso tante belle cose da vedere e gustare nel piacere della pausa e del passo corto.
Nessuna risposta.
Lo lasciai lì, smemorato e infelice, ma non potevo togliermi dalla mente la montagna che mi aveva decantato. Ero così preso nei miei pensieri che a un tratto mi trovai in una lunga fila in fondo alla quale si aprivano due grandi porte; le vedevo distintamente anche in lontananza.
Non riuscivo a capire di quale materiale fossero. Non potevo credere fossero di plastica. Invece erano fatte a imitazione una del corno e dell’avorio l’altra.
Quale imboccare?
Ero indeciso.
Tornare indietro, difficile; la lunga fila spingeva e serrava. E poi, se tanta gente spinge e aspetta un buon motivo deve pur esserci, pensai.
Mi accorsi infatti che la fila si stava allungando ora dietro di me; in prossimità delle due porte si facevano due per una frazione di secondo, per tornare sostanzialmente una, quella che entrava nella porta di finto corno, la meno nutrita e numerosa per numero di visitatori, e l’altra nella porta di finto avorio che attirava di più, forse per il materiale. Non volevo giocare al bastian contrario, in fondo ero nuovo del luogo e se i più sceglievano quella di avorio un motivo doveva esserci, anche se si sa, non sempre le scelte dei più sono poi le migliori.
Entrai come si entra al cinema, nel senso che si apriva una tenda e in un primo momento nel buio non sapevi orientarti, dopo l’occhio si abituava e cominciava a distinguere. Figure stravaganti si muovevano in uno schermo gigante, ma a differenza del cinema ci fluttuavo dentro, ci camminavo dentro insomma, ero dentro in tutto e per tutto. E come al cinema cercai la mia poltrona, quella e nessun’altra, la migliore per godermi lo spettacolo, ma qui non si sceglieva la propria poltrona, ma la corsia o forse era la corsia che ti sceglieva. Insomma ciascuno spettatore vedeva il film lungo la propria corsia, chi si spostava finiva nel film di un altro, ma la storia era completamente diversa.
A ciascuno il proprio film doveva piacere davvero tanto perché erano tutti lì a bocca aperta e non si perdevano un fotogramma, si fa per dire, perché lo spettacolo era in 3D e c’eri dentro: sensazione bellissima!
Il film io in realtà non lo avevo scelto, ma anche a me attirava molto.