Lei sospirò.
-Mi sembra legittimo-.
Poi la sua bocca rossa si storse in una smorfia contrariata, mentre levava gli occhi sulla figura accanto a sé.
-Si chiamava Theodore Grayson, era un libertino di trentasette anni. Aveva ancora parecchio lavoro da sbrigare per me, fra cui uno decisamente importante… e tu me l’hai portato via prima del tempo!-.
-Io non porto via nessuno, non sono io che decido- rispose l’altra figura, con una voce calma ed immobile quanto il suo mantello, che sembrava ignorare la lieve brezza che si stava sollevando e cominciando a diradare la nebbia.
-Questo non posso crederlo!- la donna, se così ci piace continuare a chiamarla, strappò via il braccio da quello del suo accompagnatore, facendo svolazzare il mantello adorno di piume bianche che aveva drappeggiato sulle spalle. I suoi occhi si ridussero a due fessure e dentro vi baluginò una luce terribile, che niente aveva a che fare con la natura femminile e civettuola che aveva cercato di imitare fino ad un istante prima. -Mi piacerebbe sapere per chi lavori veramente. Non te l’ho mai chiesto-.
Una mano pallida, quasi trasparente, si sollevò a tirare indietro l’ampio cappuccio nero. Il volto che c’era sotto apparve inizialmente quello di un corpo in decomposizione, orribilmente scavato dalla fame e dalla malattia. Lentamente, però, la carne riprese vita, illuminandosi di un chiarore iridescente, fino a mostrare un volto bellissimo, ancora più bello di quello di colei che gli stava di fronte, al confronto volgare e ordinario, troppo umano. Un volto semplicemente perfetto, androgino, angelico. Assolutamente angelico. Un volto che risplendeva della Grazia del Divino e al tempo stesso di una potenza primordiale, arcaica, forse più antica del Divino stesso. Sulla sua schiena, squarciando lo spesso velluto nero del mantello, erano comparse due ali candide.
Lei rise. La sua risata, inizialmente squillante e piacevole, si trasformò ben presto in un ringhio bestiale, mentre di bestia lei prendeva tutti gli attributi, spogliandosi sia delle parvenze umane che delle parvenze angeliche, mostrando la sua più intima natura, quella di Demone Primo, mostruosità e meraviglia al contempo. I bei vestiti, presero fuoco e si polverizzarono in pochi istanti sulla sua stessa carne, fattasi lucida ed opalescente. La carne di un rettile.
-Ti credevo uno di noi, Morte- disse, facendo guizzare la lingua biforcuta all’interno di una bocca che non aveva più niente di morbido o desiderabile. Una bocca ampia, vorace, piena di denti affilati come coltelli.
-Io invece ho sempre saputo chi eri tu, non per questo ti stimavo di meno- rispose la Morte, con tono affabile. -Anche se trovo il tuo attaccamento agli umani decisamente eccessivo, talvolta-.
Amore fece qualche passo. Le ali sulle sue spalle erano identiche a quelle dell’angelo, ma invece di essere bianche e perfette, apparivano sporche, sciupate, ingrigite. Colpa della Caduta, naturalmente. Inclinò di lato il capo, adesso ricoperto di riccioli color fiamma. I suoi occhi felini sembravano rubati ad una tigre, tanto erano splendidi e terribili al contempo. -Io rendo le loro vite degne d’essere vissute. Sono creature mie tanto quanto Sue- dichiarò con fierezza, non osando pronunciare quel nome che, nel luogo da cui proveniva, era severamente proibito.
Morte si rabbuiò a quelle parole: -Ecco il perché della tua condanna, Belial-.
Belial, Principe dell’Impurità, Serpente della Tentazione. Il nome che gli avevano attribuito i Greci, Eros, non era mai stato sufficiente a definire la sua essenza. L’unico fra i Greci che si era avvicinato un poco più ad essa, Platone, l’aveva definito “un grande demone” per bocca del proprio maestro, Socrate, in una delle sue opere più celebri, il Simposio.
Il “grande demone” di Platone, tuttavia, era rimasto una figura positiva. Cosa che Amore, Eros, Belial o comunque lo si volesse chiamare, non era. Egli non stava né dalla parte del Bene né dalla parte del Male. Era nato prima che questi due concetti esistessero, e non poteva adattarvisi in alcun modo. Cosa che lo rendeva affine a Morte, che li rendeva affini l’uno a l’altro in maniera così evidente che persino gli umani se n’erano accorti e per questo li avevano spesso raffigurati come fratelli, se non addirittura come la stessa divinità.
-Io non volevo schierarmi, ma non mi fu lasciata scelta- disse, scrollando le spalle.
-Sarebbe bastato non andare a stuzzicare Eva con quel frutto proibito-.
-E lasciare gli uomini nelle tenebre dell’ignoranza? Questo mai. Io li amo-.
Morte annuì lentamente. -Lo so-. Fece per allungare un braccio verso l’altro, ma si fermò a metà del gesto. Qualcuno stava probabilmente reclamando la sua presenza, da qualche parte nell’universo.
-Vai- disse Amore, accompagnando l’esortazione ad un lieve moto del capo. Sorrise, dunque, mentre riprendeva le sembianze della graziosa fanciulla di poco prima. Stavolta nuda e con un mazzo di rose bianche fra le braccia delicate. I lunghi capelli, di nuovo biondi, ondeggiavano alla brezza notturna. -Resterò io, qua. A te le anime immortali, a me i corpi di carne, in specula saeculorum-.
Morte abbassò il capo: -Mi dispiace per quell’uomo, quel Grayson-.
Amore agitò piano la mano destra, che reggeva un fiore, come a dire che in fondo non aveva tutta questa importanza. -Ne nascerà un altro. Ne nasce sempre un altro, nonostante te, nonostante Lui. Questa è l’unica consolazione che ho, l’unica consolazione che hanno gli umani-.
Morte non rispose. Si calò nuovamente il cappuccio sul volto e scomparve, lasciando Amore in quello squallido cimitero londinese, in quella nebbiosa notte d’estate dell’anno di grazia 1887, a depositare rose bianche sulle tombe di libertini, adescatrici e feccia d’ogni tipo. La sua, di Grazia, non veniva mai meno a nessuno. Nemmeno a quelli la cui anima bruciava nelle viscere più remote dell’inferno.