Il clan mafioso che vuole impossessarsi del marina che Viola ha appena ristrutturato e rimesso in attività, convoca lei e i suoi genitori ad un “incontro d’affari”. Sono presenti il capo-clan Guerrino Giacaleone e il suo portavoce Ettore Cimabue.
Già in panciolle, gambe spavaldamente accavallate e gomiti rilassati sui braccioli, Ettore Cimabue e Guerrino Giacaleone ci osservavano.
Il primo, elegantissimo in un completo scuro dal taglio impeccabile, accennò un sorriso di circostanza; l’altro, un mozzicone di sigaro molliccio fra i denti, continuò a scrutarci con circospezione. Si era tolto il panama, che troneggiava nel suo biancore sul tavolo polveroso.
Gerasa non c’era. Forse non era uno dei soci, come avevo ipotizzato, e non faceva parte della proposta d’affari.
«Veniamo al punto – esordì Cimabue – ecco la nostra proposta: voi vi farete carico del debito residuo con la Provincia e il Demanio per il rilascio delle concessioni. Poi ci cederete il 50% delle quote della vostra società e costituiremo un unico grande marina a gestione congiunta: la piccola Montecarlo del Morea».
Stavo per domandargli se ci avevano preso per degli imbecilli. Mio padre mi precedette: «Signor Cimabue, noi abbiamo un regolare contratto di affitto e il capitale necessario per ottenere l’intestazione delle concessioni. Voi, cosa avete? Perché dovremmo accordarci con lei?».
«Caro Ferrario, al mondo ci stanno quelli che comandano e gli altri che ubbidiscono – intervenne l’uomo col panama – Tu vuoi sapere pecché devi accurdarti cu’ noi?». Aveva una voce asmatica, quasi un sussurro lugubre e atono che mi fece venire i brividi e scrollava il capo, come se stesse parlando a dei bambini deficienti. «Mi domandi pecché devi accurdarti cu’ noi? – ripeté – Ora, noi, una proposta onorevole ti abbiamo fatto. O-no-re-vo-le – ribadì scadendo le sillabe – e tu sei già fortunato che ti abbiamo fatto una proposta – sottolineò il concetto numerico mostrando l’indice – ecco pecché devi accurdarti cu’ noi».
«Il vostro è un ricatto bello e buono», sbottò mio padre.
«Tu vuoi ancora avere un marina? Allora, chiste sono le condizioni e nun sono neggoziabbili. Si nun te piacciono… niente marina».
«Lei è pazzo – rispose mio padre e ostentò una risatina isterica – Crede che io e la mia famiglia abbiamo investito soldi e tempo in questa impresa per regalarla a lei?».
Giacaleone serrò i pugni e per un attimo temetti per la nostra incolumità.
«Allora nun me spiegai. Sono io che sto facendo un reggalo a ttia – puntò il dito indice verso la fronte di mio padre – e le tue parole mi offendono».
Strinsi le mani sul bordo della sedia pronta a scattare in piedi e scappare a gambe levate.
«La faccenda è già in tribunale – ribatté mio padre per nulla intimorito – e la legge ci darà ragione! »
«Finiscila ‘i mettere a’ lingua fra i denti e darci aria. A me nun me ne fotte nìnte di ttribbunali e avvocati. Quelli sono u’ sciaquone du cesso».
«Basta, abbiamo sentito abbastanza. Ce ne andiamo», dichiarò mio padre.
Giacaleone batté i pugni sul tavolo: «La darsena te la devi scurdare! Vattinne, vattinne, nun sei nisciuno. Pisciasotto! Meno di ‘na merda sei. Ti cancello, t’avveleno, ti atterro, a te e a tutta la famiglia tua. Nun sai chi ti sei messo contro».
«Ma vaff! – gli urlò mio padre facendo il classico gesto – Non mi fai paura. Buffone! Io e la mia famiglia andiamo dritti per la nostra strada, vedremo chi la vince».
Scattammo tutti quanti in piedi come pupazzi a molla e ci precipitammo giù per le scale in fila indiana. Mio padre mise in moto la macchina prima ancora che gli sportelli fossero chiusi e uscì dal parcheggio a una tale velocità che rischiammo di travolgere un’auto di passaggio.
Estratto da “Un fiume di guai” di Eleonora Scali
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