Archivio per tag: Pausa

Metempsicosis – Pausa (03)

Pamela stava nel mezzo: da un lato aveva ossessioni e fobie di ogni tipo per la vita che, inespressa, le pulsava dentro. Dall’altro sfociava nell’anaffettività verso gli altri: non conoscendo se stessa aveva timore di sé, di ciò che provava anche verso il figlio, aveva istinti (anche violenti) che, non elaborati, non le permettevano di dare amore stabile al povero Jack.

Un padre non cresciuto e sparito, una madre immersa nell’ansia e incapace di evolvere, un compagno trovato per dare una spalla a una donna incapace di ritrovarsi da sé.

Questo era il contesto che si rivelava a Jack durante il volo nell’immenso spazio. Cominciava a capire che non era riuscito a chiarire questi aspetti sulla Terra: tutta la vita era scorsa cercando di liberarsi dai sensi di colpa inflitti dalla madre e dal senso di smarrimento dovuto all’assenza del padre, sostituito da un fantoccio a cui mai si era abbandonato.

Capiva la sua incapacità di lasciare quel negozio di scarpe, capiva il suo rapporto infantile col mondo, fatto di gioco e deresponsabilizzazione; capì che l’oggetto di quella spasmodica ricerca era l’amore che non aveva mai avuto.

In questa nuova consapevolezza provò un senso di pena per i propri genitori che, non conoscendo se stessi, non avevano permesso neanche a lui di farlo. Jack capiva che stare al mondo senza accettare e vivere chi si è veramente è come errare in una nebbia di freddo, neve e forte vento alla ricerca di un rifugio che non solo non si trova ma non esiste.

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Metempsicosis – Pausa (02)

Preso dalle meraviglie della Via Lattea, Jack girò lo sguardo verso il bordo della galassia e lì si spalancò il vuoto delle distanze, il luccichio di miliardi di galassie vicine e lontane, l’amara splendida realtà di una solitudine che non è assenza, dove l’irrinunciabile desiderio di scoperta insito nell’uomo spinge a capire, come nei mari alla scoperta delle Americhe, come nella conquista di vette di montagne impossibili, come nella realizzazione e nell’esplorazione delle profondità dell’inconscio, dell’infinito mondo della scienza e dello spirito. Tutto riportava alla sensazione di oscuro conoscibile che Jack stava provando davanti a un’inspiegabile attrazione costruttiva di senso.

Ripensò a un regalo di compleanno. Aveva dieci anni, sua madre gli regalò un cannocchiale sufficiente a vedere chiaramente i crateri lunari. Lo stupore di Jack lo portò a trascorrere intere serate a contemplare in uno stato di fuga dalla realtà, avvicinava l’occhio al mirino e si chiudeva in quelle immagini di silenzio aprendosi a un’altra dimensione. La luna illuminata dal sole pareva brillare di luce propria, la luna per Jack aveva un’anima e questa presenza gli dava modo di sentirsi meno solo.

La solitudine era sempre stata presente nella sua vita dopo che suo padre se ne era andato. Viveva con la madre Pamela Robson e il suo compagno Arthur Break. Si erano conosciuti durante un incontro per affari: lui rappresentante di scarpe, lei rivenditrice e proprietaria da generazioni di un negozio di abbigliamento che aveva chiamato “Cuore d’Oro” in pieno contrasto con la propria incapacità di donare affetto. Una vita dura la sua, fatta di illusioni d’amore e di speranze d’emancipazione.

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Metempsicosis – Pausa (01)

PAUSA

…che Jack temeva con terrore sarebbe durata a lungo; di sicuro non avrebbe potuto sopportare quella condizione di claustrofobica e solitaria esistenza per un tempo di durata incerta.

Pausa, una pausa che non sapeva di provvisorio. Jack si sentiva come un topo con cui il gatto giocherella nella certezza di aver fatto sua la preda. Ogni azzannata di consapevolezza penetrava tra le costole del pensiero insidiando gli organi vitali della sua Fede, della sua speranza, del nord magnetico che punta alla salvezza.

La Fede: Jack conosceva quella sensazione che fa sentire guidato ma partecipe di un disegno, quella spiritualità che aveva sentito nei suoi percorsi parrocchiali dove la religione, seppur con le proprie ipocrisie graffianti, concedeva un canale all’espressione di ciò che è ontologicamente in noi e che governa l’istinto e poi i sensi di colpa generati da quella stessa dottrina che vorremmo definire Dio.

Lì l’allontanamento dalla Fede, la colpa, il peccato, il giudizio e con tutto ciò l’annientamento di sé e della propria personalità affiorava in quel momento, in quel corpo morto che, nel frattempo, le guardie carcerarie stavano trasportando all’obitorio del penitenziario in attesa di un parente o di un amico che volesse dare l’ultimo saluto.

Per Stewart questo non sarebbe stato possibile, nessuno aveva un pensiero per lui e, sebbene sia umanamente comprensibile l’abbandono di una belva, quel silenzio dell’obitorio pareva comunque piangere il volo di un essere umano solo.

Jack cominciava a impazzire; poi tornò il desiderio di calma, il tentativo di autocontrollo che in tutta questa esperienza lo aveva tenuto in sé, dicendosi continuamente che sarebbe finito tutto e che, qualunque fosse il significato di questa esperienza, sarebbe arrivato dove il suo sentire lo proiettava. E cominciò a pregare, niente di liturgico ma solo un parlare al proprio cuore di essere umano, immagine metaforica che (mai come in quel momento) contrastava con l’immobilità del muscolo vitale di Stewart, morto ormai da un’ora.

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Pausa d’Autore 2

Il risotto alla milanese
da Leggende e storie milanesi   di Laura Maragnani  e Franco Fava

Era il Settembre del 1574. Da quasi duecento anni, ormai, erano in corso i lavori per la fabbrica del Duomo, alle cui spalle si era formata una vera e propria città di baracche e porticati in cui alloggiavano marmisti, falegnami, scultori, carpentieri venuti da ogni parte d’Europa. In una specie di cascina di quella babele multilingue, viveva una piccola comunità di belgi: Valerio di Fiandra, maestro vetraio, incaricato di portare a termine alcune vetrate con gli episodi della vita di Sant’Elena, s’era infatti portato a Milano i più bravi dei suoi discepoli. Uno, in particolare, spiccava tra gli altri per la sua straordinaria abilità nel dosare i colori, ottenendo effetti a dir poco sorprendenti. Il suo segreto? Un pizzico di zafferano, aggiunto con maestria all’impasto già pronto. E proprio per questa sua abitudine, era stato soprannominato “Zafferano”… Maestro Valerio, gli ripeteva che andando avanti così avrebbe finito per infilare lo zafferano anche nel risotto. Fu così che, dopo tanti anni di canzonature, il giovane decise di giocare un tiro mancino al maestro: il giorno della Madonna si sarebbe sposata la figlia di Valerio, e quale migliore occasione per spruzzare davvero un po’ di polverina gialla nel risotto per il pranzo di nozze? Era nato il risotto alla milanese.

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Metempsicosis – 04 – Pausa

Portatelo via il corpo è già freddo
portatelo via, via da qui

Sono vivo non sentite che sono vivo
sento voci ma non capite sono ancora qua
Liberatemi liberatemi ecco che…
Libero