La comitiva era quasi tutta composta dagli adolescenti del palazzo di via Alessandro Severo 71a, pochi altri dei palazzi intorno. Come Paolo il “pesce” – per una storia inenarrabile di un pesce vinto al luna park dell’Eur, in una gita domenicale, metafora dell’incomunicabilità tra esseri, ma nella fattispecie, tra il genere femminile e maschile – inquilino nello stabile in cui si trovava la “nostra cantina” e grande faccendiere per la permanenza sostanzialmente abusiva nei locali.
Paolo cantava. Grosso di corporatura. Cassa toracica imponente. Primi accenni di barba lasciata crescere ondulata sotto una capigliatura nera fluente. Aspetto da anarchico ottocentesco con occhialini ala Cavour spessi come fondi di bottiglie per la sua grave miopia. Aveva, insieme ad una bella voce da tenore, aspirazioni artistiche assecondate dal padre. Andava dall’insegnante di canto e possedeva una elaborata tastiera che guardavamo con cupidigia. Da lui scoprii il De Andrè di “Tutti morimmo a stento” e di “Senza orario e senza bandiera”, che molti ancora oggi pensano sia solo una incisione dei New Trolls. Ricordo nella sua stanza un primo ascolto di “Abbey Road”, da lui appena comprato. Insieme a Mario, mingherlino, ottimo centrocampista, controllo di palla e finta di corpo carioca, baricentro basso alla Capello, con radi capelli lunghi e ondulati che continuamente lisciava sulla fronte, in una specie di riporto appiccicoso che evidenziava il suo naso aquilino. E insieme a Giuliano, della scala A, affascinante e simpatico dandy beatlesiano, leader consapevole del gruppo. Seduti in fila su quattro sedie, in mezzo alle due casse poggiate sul pavimento, ci immergemmo alla scoperta del suono più pulito mai ascoltato finora dai quattro baronetti. L’anno prima, intorno al natale del 68’, avevo perso ogni dignità sul pianerottolo della sua casa al quarto piano di via Giustiniano Imperatore, dove lo avevo inseguito e pressato per farmi prestare “White Album” uscito da pochi giorni. Allora non c’era quella fruibilità musicale di cui godiamo oggi quasi senza accorgercene. Quel genere di musica per ascoltarla bisognava avere i soldi per comprarla o avere qualcuno che te la prestasse. Non girava tra le scarsissime trasmissione radiofoniche. Per non parlare della tv a due canali.
Ma fu solo quando casualmente, di amicizia in amicizia, allargai la conoscenza ad altre porzioni di quartiere ed entrai nella Garbatella, che il mio rapporto con il femminile iniziò. In quello che senza saperlo era il mio primo cambio pelle lontano da via Alessandro Severo 71a, dalla quale, insieme alla mia giovinezza, mi allontanai senza mai più voltarmi.
Non li rividi praticamente più.
Una volta, con me già coinvolto ed assorbito dal ciclone del 77’, rividi Gianluca della scala C. Secondogenito di quattro maschi, tra cui Claudio, il maggiore e mio coetaneo: basso con torace da pallanuotista, volto regolare con due sopraccigli alla Batman, sguardo intelligente e perverso, improbabile pittore nella sua cantina di inaspettate e stupefacenti madonne leonardesche, impensabili per quello spicchio di periferia. Incrociai Gianluca, fisico più leggero e forse meno personalità del fratello maggiore, mentre uscivo dal cancelletto del 71a, alla fine del giardinetto in salita. Lui, in conversazione con altri suoi amici, era poggiato a sostenersi con un piede solo sul nostro basso muretto. Appena dopo che con un cenno della testa ci eravamo salutati e gli davo già le spalle, forzò il tono della voce con qualcosa del tipo “… fa bene chi se butta in politica … e certe cose le fa da sinistra …”. Mi sembrò chiaramente un allusione. Io in quel periodo ero diventato necessariamente paranoico. Ma il modo in cui lo disse, con la sottolineatura accentata come a far capire agli altri di riferirsi a chi ti sta in quel momento incrociando, tecnica che mi trovai a praticare nei primi anni di vita impiegatizia, sintomo primario del dissociamento relazionale oltre che mentale, non ammetteva dubbi.
Pochi anni dopo, al mio ennesimo cambio di muta, durante il quale il “rompete le righe” mentale confinava pericolosamente con lo straniamento individuale, tutti cominciarono a sapere. Libri, film, serial televisivi e nuovi comici li avrebbero immortalati nell’immaginario collettivo degli italiani.
Nella realtà della “fiction” Marcello era diventato il “Bufalo”.
Gianluca un suo luogotenente.
Mauro Paracini