Archivio per tag: Leonardo Borchi

Quaranta anni fa…

Prendemmo il fattore, che sì aveva quei tanti anni, ed anche qualche chilo, in meno, ma pur tuttavia sudava abbondantemente su per il sentiero verso il Gennaro.
Lo mettemmo in mezzo, tra me e Baffone, fisicamente e metaforicamente, nel senso che lo coinvolgemmo nella scelta del percorso di quella prima scarpinata che si chiamerà “Scarabone” e lo portammo a percorrerlo….oh non era il factotum del Corsini!? Avevamo bisogno del suo imprimatur.

Baffone, ovvero: “Piacere, Verdi Roberto, necroforo-giardiniere”. Perché becchino era brutto..
Oggi, quando ancora con le cosce all’aria, dopo aver fatto i miei sedici ( ma per me sono meno) chilometri della corsa, mi hanno chiesto di premiare le squadre partecipanti…….Ho pensato a lui, a quaranta anni fa quando ci inventammo questa corsa. Allora non era di moda correre per hobby, le spose non avevano l’ossessione di rassodare i glutei e i quarantenni non correvano a fine giornata con l’i-phone per scordare lo stress da lavoro. Era tempo di austerity. Leggi: domeniche a piedi per risparmiare petrolio, a tirare le forme di cacio lungo la Bolognese, ad andare per calesse, a…correre, meglio scarpinare a piedi.

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Simba, Simba! 2/2

“Non potrebbero aspettare di vedere chi c’è e cosa portano e poi sistemare il bagaglio?”.
La categoria del pensiero organizzativo è sconosciuto ai bantù.
Quando dopo quattro ore fu definito il carico e fu definito il numero dei passeggeri, il pickup sembrava la cupola del duomo ed io contai diciassette persone. Ma me compreso.
E mentre salivo a sedere sul tettuccio della cabina (sarà stato un posto nobile?!), vidi arrivare il boss, che naturalmente era il guidatore, mentre si portava dietro un vecchio fucile ad avancarica.
“Che se ne farà? Belve? Banditi?”. Non approfondii.
Si parte. Tempo bello. Io che mi dovevo arreggere al portapacchi su cui sedevo per non cader giù per il dondolio pauroso.
Non è una strada, sembra più una pista da bob, ma con sponde di terra ed alquanto dissestata.
Per ora la maggior difficoltà è data da queste piante che hanno degli aculei di sei, sette centimetri, che ti vengono incontro precisi all’altezza dello stomaco.
Dal cofano si alza una nuvoletta di vapore. Acqua che bolle. Ci si ferma. Tutti a terra. Ci sono un paio di neri un po’ più chiari, con i tratti dei somali, che mi guardano di traverso. Devono aver saputo che sono italiano ed a quanto pare i miei compatrioti non hanno lasciato loro un bel ricordo.
Stiamoli alla lontana. Aspetto al limitare della pista, un po’ discosto. Sono in tre o quattro con la testa affogata dentro il vano motore. Il boss impartisce ordini.
Dopo mezz’ora si riparte. Tutti su. Altri venti minuti di viaggio e scoppia una gomma. Rifermi.
I ragazzi del carbrush, due, armeggiano con crick e chiavi.
Di nuovo in carrozza. Si riparte e…dopo altri venti minuti ribolle l’acqua. Si sarà fatto in due ore sì e no cinque chilometri.
Alla terza volta, che si alza la nuvoletta di vapore, un po’ curioso ed un po’ spazientito metto anch’io la testa sotto il cofano. Mi guardano sospettosi. Comunque voglio vedere cosa fanno.
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Simba, Simba! 1/2

“Quando parte?” Questa frase in realtà è la traduzione in italiano di un po’ di inglese e di parecchi gesti.
Sono davanti all’imbarcadero di una nave traghetto, sudato dal caldo appiccicoso e me la gioco con un nero del servizio portuale, che si riconosce per il ruolo, solo dal fatto che oltre all’infradito, ad un paio di pantaloncini corti ed una maglietta scolorita esibisce anche un cappello, sgualcito, ma con visiera.
Lago Tanganica. È  un mare stretto, profondo e lungo in mezzo all’Africa. Tanzania per la precisione.
L’ho raggiunto, io e lo zaino in spalla, sbatacchiato da un bus, per un giorno ed una notte, su una pista di terra rossa con l’intermezzo di due soste di un’ora ciascuno, causa forature.
Guardando questa distesa di acqua limpida, il lago è profondo anche più di mille metri, mi sono detto: “Perché non addentrarsi a sud?”
Non ci sono strade, l’unica via è quella sull’acqua.
Così mi ritrovo su questa nave, celestino scrostato, io unico bianco tra cinquecento neri. Mi guardano e sorridono, gli adulti. Mi guardano e ridono, i bambini. “Ma che ho il viso a pizzicorino?!”
È un po’ un viaggio alla cieca. Non sono partito molto attrezzato. Una guida piuttosto sommaria ed una carta ….molto generica e a grande scala. A metà del lago dà una città. Dopo che ho chiesto dieci volte a dieci persone differenti, sono quasi sicuro che il traghetto fermerà in corrispondenza del puntino.(mai chiedere: qui ferma la nave? Ti risponderanno comunque qualcosa, anche se non hanno capito, ma se hanno capito ti daranno la risposta che pensano che tu ti aspetti).
Dopo un giorno di navigazione e di sberleffi nei miei confronti, il barcone fa manovra: “Oh vuoi vedere che siamo arrivati?..Ma dov’è la città?. Guardo verso riva e ad un chilometro circa vedo dei tetti di capanna. “Un villaggio, macché città!”
La nave si arresta, molto lontana dalla riva. Io agguanto il mio zaino. “Ora si attracca”.
Dalla riva si staccano una decina di lance a motore. Alcuni passeggeri scendono per la scaletta di ferro esterna alla fiancata. Le donne anziane sembrano dover cadere da un momento all’altro. Non capisco.
Poi improvvisamente realizzo. La nave non si avvicina a terra e chi vuole scendere sale sulle lance dei parenti, che sono venuti a fare da navetta.
“Che fo? Scendo anch’io?”
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Ottavio Berti, ovvero mani pulite

Quando sono arrivato a Vaglia, dalla città, ero affamato di spazi
aperti, di case rurali con le facciate colorate dal verderame, con cui i mezzadri avevano da sempre irrorato la pergola di vite, baluardo contro il solleone dell’estate. E, non solo metaforicamente, di pollo fritto consumato sulla grande tavola della famiglia contadina.
Ottavio era il personaggio che più incarnava, a quel tempo, il mio immaginario cittadino di cosa doveva essere il contadino per antonomasia.
Pantaloni di fustagno, l’immancabile stecchino tra i denti, la pelata tra i capelli sempre occultata dal cappello e la flemma, il passo lento, più lento che l’età poteva suggerire.
E poi…gli occhietti vispi, furbi di chi non ha studiato la vita sui libri, ma ha imparato dalla vita.
“Ottavio che me lo venderebbe un coniglio?” (per la precisione un conigliolo). “Bah, che sa addire…”.
La casa l’avevo già frequentata, per curiosità, nei miei giri di perlustrazione a cavallo della vecchia nera Gilera 125.
Quella di Ottavio mi affascinava per la promiscuità degli animali che giravano sull’aia, e non solo: c’era di tutto, anatre, galli, paperi, pulcini che uscivano dalla stalla, chiocce che covavano tra il fieno. Un’Arca di Noè scacazzante dovunque. E poi c’erano quelle chianine meravigliose, pulite, tirate a lucido, differenti da tutte le vaccine delle altre stalle.
Si respirava ancora l’odore del concio, che faceva tanto campagna.
Un giorno accompagnai i’Leardi, il veterinario; doveva mettere il bollino all’orecchio di una vitellina. Ottavio maneggiava la bestia impaurita con la maestria frutto dell’esperienza.
Era una scena d’altri tempi. Leggi tutto →

Maria di Monte di Gianni

“Buongiorno, mi sa mica indicare la strada per Prato Fantoni?”. Un attimo, lungo, di disorientamento. “Ah sì, guarda, prendi questa viottola, passi il torrente e poi vai dritto…Prato Fantoni, eh! Sì, sì…buona passeggiata”.
Non sarà stato perché erano le undici di mattina, che sarà mai?!Piuttosto di un giorno particolare, il primo dell’anno, sì.
Il ragazzo, si vedeva, aveva appena messo fuori il naso per respirare una boccata d’aria fresca per riprendersi dai bagordi notturni. Ad occhio e croce, aveva approfittato, per la festa d’addio all’anno vecchio con gli amici, della casa di campagna dei genitori.
Fatto sta che ci buttò fuori strada alla grande.
Fabiola aveva il fiatone: “Quanto manca?”. Duecento cinquanta metri di dislivello dalla parte opposta.
“Guarda lì! È quella!”. Dall’alto si vedevano, come puntini lontani, due tetti in lastre di pietra. Era la casa, con tanto di fienile, che ci aveva intrigrato quando la scoprimmo all’asta su internet.
Prezzo abbordabile, rustica quanto basta: senza acqua corrente, senza luce, per di più senza strada, perché franata dieci anni prima. Quindi isolata.
Tant’è, io cercavo un seccatoio in mezzo ai castagni. Questa in confronto era un castello!
Fu così che dopo aver ruzzolato per un erta, saltando tronchi abbattuti, e graffiandosi tra gli sterpi residui di un recente taglio di bosco, facemmo conoscenza della casa. Abbandonata, prima per la morte del proprietario, poi per la frana.
La porta era socchiusa. La casa completamente arredata, anche se poveramente, con l’armadio pieno dei vestiti dell’ultimo proprietario, Gosto, che l’aveva abitata.
“Senta, non è che a lei interessa? Non vogliamo passarle avanti”.
“A me?! No, no. Io ne ho una a Vallucciole che non mi riesce di vendere.”. “Se la prendete voi non mi pare i’ vero”.
Fu così che conoscemmo la Maria. Quella che poi diventò la nostra vicina, la nostra confinante. Aveva passato da tempo i sessanta anni ed abitava da sola, tutto l’anno, la casa di famiglia nel borghetto di Monte di Gianni. A pochi passi dalla casa del pischello molto gentile, ma poco edotto sulla toponomastica della zona.
Infatti la strada più diretta per la casa, che poi ci aggiudicammo spellandoci all’asta, passava proprio davanti alla Maria. Leggi tutto →