“Quando parte?” Questa frase in realtà è la traduzione in italiano di un po’ di inglese e di parecchi gesti.
Sono davanti all’imbarcadero di una nave traghetto, sudato dal caldo appiccicoso e me la gioco con un nero del servizio portuale, che si riconosce per il ruolo, solo dal fatto che oltre all’infradito, ad un paio di pantaloncini corti ed una maglietta scolorita esibisce anche un cappello, sgualcito, ma con visiera.
Lago Tanganica. È un mare stretto, profondo e lungo in mezzo all’Africa. Tanzania per la precisione.
L’ho raggiunto, io e lo zaino in spalla, sbatacchiato da un bus, per un giorno ed una notte, su una pista di terra rossa con l’intermezzo di due soste di un’ora ciascuno, causa forature.
Guardando questa distesa di acqua limpida, il lago è profondo anche più di mille metri, mi sono detto: “Perché non addentrarsi a sud?”
Non ci sono strade, l’unica via è quella sull’acqua.
Così mi ritrovo su questa nave, celestino scrostato, io unico bianco tra cinquecento neri. Mi guardano e sorridono, gli adulti. Mi guardano e ridono, i bambini. “Ma che ho il viso a pizzicorino?!”
È un po’ un viaggio alla cieca. Non sono partito molto attrezzato. Una guida piuttosto sommaria ed una carta ….molto generica e a grande scala. A metà del lago dà una città. Dopo che ho chiesto dieci volte a dieci persone differenti, sono quasi sicuro che il traghetto fermerà in corrispondenza del puntino.(mai chiedere: qui ferma la nave? Ti risponderanno comunque qualcosa, anche se non hanno capito, ma se hanno capito ti daranno la risposta che pensano che tu ti aspetti).
Dopo un giorno di navigazione e di sberleffi nei miei confronti, il barcone fa manovra: “Oh vuoi vedere che siamo arrivati?..Ma dov’è la città?. Guardo verso riva e ad un chilometro circa vedo dei tetti di capanna. “Un villaggio, macché città!”
La nave si arresta, molto lontana dalla riva. Io agguanto il mio zaino. “Ora si attracca”.
Dalla riva si staccano una decina di lance a motore. Alcuni passeggeri scendono per la scaletta di ferro esterna alla fiancata. Le donne anziane sembrano dover cadere da un momento all’altro. Non capisco.
Poi improvvisamente realizzo. La nave non si avvicina a terra e chi vuole scendere sale sulle lance dei parenti, che sono venuti a fare da navetta.
“Che fo? Scendo anch’io?”
Un attimo…….corro giù per la scaletta e salto sull’ultima lancia che stava per staccarsi. Allora sì che ridevano!
Quando tutti sono scesi dai gusci di legno, calandosi nell’acqua, con i loro sacchi e le loro gabbie di animali, dopo che anche io li ho seguiti e loro sono scomparsi alla vista oltre i manghi ed i banani, ridendo mentre si girano verso di me, rimango io sulla spiaggia, solo.
Direi un po’ spaesato.
“Oh, meno male che c’è qualcuno con cui ci si intende!” È il parroco della chiesetta cattolica di Karema, che parla un po’ di inglese. “No road, no bus. Twenty miles, Difficult, very difficult. Marsh”. “Marsh?! Mi sembra si traduca con “palude”. Ci mancherebbe che faccia la fine di quei personaggi dei fumetti che rimangono intrappolati nelle sabbie mobili!
Mosso da carità cristiana, il prete mi trova un bambino che è tutto contento di farmi da guida.
Lascio le poche capanne e lungo viottolini sospesi tra una marcita e l’altra, il bimbetto mi conduce al villaggio da dove dovrebbe partire la strada. Lo ricompenso con cappellino da imbianchino.
Finalmente arrivo a destinazione. Qualche capanna, di cui un paio in muratura e tetto di paglia. Queste ultime sono tutte e due del boss del villaggio, un tipo vecchietto e magro, distinto, alla maniera africana, proprietario dell’unico mezzo a quattro ruote.
Quello che mi dovrebbe dare un passaggio. Un Toyota pickup Cruiser, sei cilindri. Un po’ scalcinato. Capisco che non è pronto per partire. Ma lo stanno riparando. I pneumatici presentano dei grossi buchi sulla spalla. Li stanno otturando con dei pezzi di battistrada.
“Quando parte?”..Forse domani. “Dove posso dormire?”. Una capanna che fa da magazzino con il fondo in terreno battuto. Tra le assi delle pareti ci passa una mano, ma perlomeno è asciutta.
“Dove si mangia?”. Una panca, un tavolo, un pentolone, fagioli e..fagioli.
Il giorno passa andando a spasso fra le capanne e le capre. L’inusualità di un “buana” nel villaggio, faceva sì che non ridessero nemmeno. Infatti i neri d’Africa, quelli della Tanzania perlomeno, in genere sono schernevoli. Se un passeggero troppo sballottato sul bus vomita…si mettono a ridere. Sembra non conoscano l’empatia. In quel caso però erano talmente disorientati che non avevano codificato una risposta. Semplicemente, quando li incrociavo, cercavano di evitare il mio sguardo.
Arriva la notte e con essa le zanzare. La malaria è una brutta bestia. Anche con la zanzariera, che avevo attaccato alle assi alla meno peggio, era un inferno.
“Ah, oggi non si parte…pazienza. Quando?…Domani. Va bene..”
Così per tre giorni. Si sa il tempo in Africa è lento.
Intanto proseguivano i lavori alla regina della savana. I meccanici non mi davano tanta fiducia. Con la testa sempre dentro il cofano avevano l’aria un po’ spaesata e mi davano l’idea di avere delle cognizioni di meccanica un po’ approssimative.
Comunque a pranzo c’erano i fagioli ed a cena…fagioli.
Finalmente arriva il giorno della partenza. Io sono già pronto con il mio zaino. Comincia ad arrivare gente dall’interno, con le loro balle enormi di pesce secco dal puzzo terribile, con sedie, sporte di plastica, con sacchi di farina…e ceste, pentoloni…”Ma come farà a starci tutta questa roba?!”.
E ad ogni nuovo passeggero, e ad ogni nuovo bagaglio…….si disfaceva il carico per riadattarlo sul cassino al nuovo volume.
Simba, Simba! 1/2
Simba, Simba! 1/2
ultima modifica: 2015-12-04T08:22:24+01:00
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