“Non potrebbero aspettare di vedere chi c’è e cosa portano e poi sistemare il bagaglio?”.
La categoria del pensiero organizzativo è sconosciuto ai bantù.
Quando dopo quattro ore fu definito il carico e fu definito il numero dei passeggeri, il pickup sembrava la cupola del duomo ed io contai diciassette persone. Ma me compreso.
E mentre salivo a sedere sul tettuccio della cabina (sarà stato un posto nobile?!), vidi arrivare il boss, che naturalmente era il guidatore, mentre si portava dietro un vecchio fucile ad avancarica.
“Che se ne farà? Belve? Banditi?”. Non approfondii.
Si parte. Tempo bello. Io che mi dovevo arreggere al portapacchi su cui sedevo per non cader giù per il dondolio pauroso.
Non è una strada, sembra più una pista da bob, ma con sponde di terra ed alquanto dissestata.
Per ora la maggior difficoltà è data da queste piante che hanno degli aculei di sei, sette centimetri, che ti vengono incontro precisi all’altezza dello stomaco.
Dal cofano si alza una nuvoletta di vapore. Acqua che bolle. Ci si ferma. Tutti a terra. Ci sono un paio di neri un po’ più chiari, con i tratti dei somali, che mi guardano di traverso. Devono aver saputo che sono italiano ed a quanto pare i miei compatrioti non hanno lasciato loro un bel ricordo.
Stiamoli alla lontana. Aspetto al limitare della pista, un po’ discosto. Sono in tre o quattro con la testa affogata dentro il vano motore. Il boss impartisce ordini.
Dopo mezz’ora si riparte. Tutti su. Altri venti minuti di viaggio e scoppia una gomma. Rifermi.
I ragazzi del carbrush, due, armeggiano con crick e chiavi.
Di nuovo in carrozza. Si riparte e…dopo altri venti minuti ribolle l’acqua. Si sarà fatto in due ore sì e no cinque chilometri.
Alla terza volta, che si alza la nuvoletta di vapore, un po’ curioso ed un po’ spazientito metto anch’io la testa sotto il cofano. Mi guardano sospettosi. Comunque voglio vedere cosa fanno.
La cinghia che fa girare la ventola è lente e slitta. Per tenderla maggiormente cosa fanno? Arrotolano una funicella di vegetale facendole tanti nodi come un rosaio,per far spessore intorno alla puleggia.
Chiaro che dopo poco si usura e si strappa e siamo d’accapo. Prendo l’iniziativa e scosto il ragazzo con mossa decisa. Vedo che la cinghia gira anche sull’alternatore. “Se riesco a spostarlo, posso tendere la cinghia…Qui c’è un buco giusto sul parafango”.
Un po’ troppo piccolo per far passare il bullone.
Guardo la dotazione degli arnesi dei meccanici. Con un tondino consumato ci metto mezz’ora, ma ottengo il risultato.
Assicuro l’alternatore nella nuova sede. La cinghia ora è tirata al punto giusto. Chiudo il cofano.
Gli uomini mi guardano con meraviglia mescolata al sospetto. Alla fine il boss comanda di salire.
Partiamo. L’acqua non è più bollita ed io mi sono conquistato l’autorevolezza.
Dei nuvoloni si sono addensati sopra di noi. Viene giù il diluvio. Noi tutti allo scoperto facciamo la doccia, sarebbe nulla, è caldo, se la strada, della solita terra rossa argillosa, non diventasse un pantano scivoloso. Il pickup comincia ad avere problemi di grip appena appena la pista sale. Giù tutti, a spingere su questo terreno su cui si fa fatica a stare in piedi.
Si fa notte all’improvviso come succede ai tropici. Continua a piovere. Siamo tutti fradici. Ad un certo punto passando su un ponticino di assi sento un crack secco e l’auto si inclina su una parte. Per poco non volo di sotto.
Al lume di una torcia appuro che ha ceduto una traversina del ponte e siamo con una ruota a penzoloni. Aiutandosi con altre traversine, divelte dallo stesso ponte, con l’acqua alla vita, si riesce dopo un’ora a calzare la ruota e ripartire.
A notte inoltrata ci fermiamo ad una capanna che fa da locanda, dove troviamo se non cristiani, altri esseri umani, che condividono con me due banane, tutta la cena, al lume di candela.
Continua a piovere tutta la notte ed è ancora buio quando ripartiamo.
Da lì in poi la disperazione. La pista non si vedeva quasi mai, tanto era allagata.
La prima volta che ci siamo impantanati, avevamo l’acqua all’altezza delle ruote. Giù tutti gli uomini, le donne no: rimanevano sul carro. Che galanteria! E giù spingi nell’acqua fino alla cintola. Ma siccome, come detto, i bantù non brillano per organizzazione, eravamo in dieci a terra a spingere? Qualcuno faceva forza ora, qualcuno faceva forza dopo, qualcuno faceva finta.
Alla terza volta che il boss ha condotto il Toyota nella palude e si stava per ripetere la pantomina, ho cominciato ad urlare in fiorentino e menare comandi di qua e di là e non sarà stato certo perché capivano l’idioma, ma per il tono ed i gesti che..spingevano più in sincronia e si riuscì a venirne fuori molto, ma molto meglio.
Non so quante volte in quella giornata mi toccò scandire l’”oohho!”. Ci fu che per qualche ora l’orizzonte era solo una distesa di acqua ed io mi auguravo che il boss sapesse dove mettere le ruote.
Alla fine emergemmo dalle acque, come un sommergibile, ed il Toyota aveva preso anche una velocità quasi ragguardevole.
Era notte ed io, sempre nella mia postazione sul cielo della cabina, seguivo i fari che aprivano la vista nel buio.
Correvamo accanto ad un canale molto largo, ad un certo punto il pickup entra in una fossa di fango ed acqua, i’ boss perde il controllo, l’auto sbanda…”Noèèèè!”
Invece sì….si finisce dritti nel fosso e manca poco che ci si ribalta.
“Questa volta non la tiriamo fuori”. Parve subito chiaro e non solo a me.
“Quanto manca?” Venti chilometri. “C’è la luna. Prendo lo zaino, ne ho piene le tasche. Vado a piedi. Lascio il boss, il pesce puzzolente, i somali e mi avvio”.
“Cosa grida quello?”. “Ehh?! Simba? Che simba? Ci sono i leoni?”
Forse è meglio aspettare giorno.
Così, io con una mantella impermeabile addosso, gli altri con dei lenzuoli, per ripararsi dalle zanzare, abbiamo aspettato l’alba seduti sulla proda del fosso a far vigilanza alla Toyota semi sommersa.
Appena fatto giorno mi associo ai due ragazzi assistenti di bordo, uno con lo schioppo residuato delle guerre napoleoniche, saluto la banda di viaggio, mi carico lo zaino sulle spalle, mi levo le scarpe, me le lego al collo e con i piedi nudi mi incammino nella palude verso il villaggio dove avrei dovuto trovare la ferrovia.
Venticinque chilometri, una colonia penale sulla strada, per fortuna niente simba, nemmeno le galle ai piedi ed alla fine… un altro viaggio ed un’altra avventura, che magari vi racconterò un’altra volta.
Augh-
Simba, Simba! 2/2
Simba, Simba! 2/2
ultima modifica: 2015-12-11T08:22:24+01:00
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