Sammarella è un nastro d’acqua scura che divide il mazzo di case del villaggio e si mischia col Sinni. Nelle sue masserie non c’è traccia di vita e i pochi calcinacci ancora in piedi sono adibiti a nido dei ricordi. Neppure l’ala della storia ha sfiorato questi calanchi, se non quella di padroni su giumente e mosche sotto il naso.
Anche questa terra ha pascolato i suoi anni nel prato della speranza e porta segni indelebili di smosse spuntate sul dorso dei suoi altipiani o sulle groppe dei suoi sentieri. Postille vescovili e registrazioni di cassa parrocchiali ripropongono immutate le sconfortanti rovine dopo ogni sisma.
A inseguire un nome, un casato, si scopre che intere famiglie, singoli sopravvissuti ricompaiono da Melfi a Valsinni, da Craco a Noepoli. Altri nomi passano da un fiume all’altro: dalle sponde del Basento a quelle del Racanello.
Questa è l’antropologia delle nostre genti, la topografia dei nostri cammini, prima di sapere Melbourne, prima di Rio, di Caracas, prima ancora di ogni oceano. Anche Sammarella è fatto di questi nomi, di questo stuolo di vite cresciute all’ombra della storia.
Nato ai piedi della Torre di Giura, questo rivolo di creature ha fatto proprie la lingua di Teana e le inflessioni di Fardella. Per questo la parola villaggio non può identificare questo cosmo scarno, dove neppure il canto o il dolce di natale si somigliavano tra una sponda e l’altra, dove l’inimicizia era un lascito d’acciuffare, un fiore d’annaffiare, dove il rito del buon raccolto accadeva sempre al sonno del vicino, dove i litigi notturni in famiglia avvenivano con lo sprono pronto della riva di fronte. Canti estivi di ostilità, incitazioni, soprannomi gridati nel buio, in quelle assurde notti a sud diventavano riti, scongiuri, spergiuri, malanni, malocchi ed echi inconsolabili di condanna.
I figli del Sammarella mischiavano quelle urla alle paure per le piogge inquiete e ai racconti di arcaici terremoti. Restavano muti sotto i pioppi bagnati e immutabili, e le sere venivano a prendersi i contorni delle speranze; così, senza nulla in cambio, cominciavano a imparare la nostalgia, l’ipocondria dei viandanti, la malinconia dei migranti. Quei sentimenti che ognuno di loro avrebbe portato con sé nelle città o in altre stanze del mondo, dove prima o poi sarebbero andati a finire. C’erano nella loro età dei fruscii, dei suoni, dove nascevano parole che erano come paure d’artigli o febbre che colpiva le ossa.
Quel torbido scrosciare di piogge rosse che alzavano le acque stordisce ancora i giorni di quei ragazzi che, in qualsiasi posto del mondo si trovino a invecchiare, a volte, come me, si risvegliano di notte con un pensiero: prima o poi quel nastro d’acqua scura si porta via ogni anima di questa terra insonne.
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