C’era qualcosa che lo infastidiva, ma non riusciva ancora a capire cosa fosse. Si era svegliato presto, e provava un forte senso di nausea. Aveva preso lui la telefonata il giorno precedente e non immaginava che quell’intervento per un probabile suicidio sarebbe stata un’esperienza tanto coinvolgente. Come capo della squadra omicidi aveva sorriso della coincidenza che in quel momento fosse lui l’unico a poter intervenire.
Prese due agenti, raccomandando loro di portare un taccuino e una penna. Si fermò anche per strada a prendere un caffè, come se in fondo non ci fosse poi così tanta fretta. La zona era poco fuori Roma, uno di quei quartieri nati per scommessa, con l’inganno delle cooperative edilizie, che facevano lievitare i costi delle abitazioni scelte su piantine cartacee, intercettando il sogno di chi la casa dove abitare credeva di poterla possedere a un costo sostenibile. Ora, a distanza di tempo, le palazzine erano state costruite, ma molti si erano trovati a doverne rivendere le quote.
C’era il sole mentre entrava insieme ai due agenti nel giardino condominiale decoroso e pulito. Lui era stato colpito dal nulla che regnava attorno a quel quartiere, senza un supermercato nelle vicinanze o una farmacia, una scuola, persino privo di strade asfaltate. Ora, mentre ripercorreva gli avvenimenti per individuare ciò che l’aveva turbato, si chiedeva se fosse stato quel senso di isolamento oppure il profumo intenso degli oleandri appena fioriti, confuso con l’immobile carezza della mortalità. ─ E’ al terzo piano! ─ gli gridò un uomo affacciato al parapetto delle scale. Sul pianerottolo alcuni vicini guardavano sgomenti la porta socchiusa, gli sguardi increduli, un’ombra colpevole dipinta sui loro volti. ─ Prendi le loro generalità e chiedi se hanno dichiarazioni da fare ─ disse il commissario a uno dei suoi ─ e tu invece vieni dentro con me ─ intimò all’altro. Entrò in quell’appartamento e pensò che non fosse ancora abitato, tanto era spoglio.
Passò davanti a una stanza dove c’era un materassino gonfiabile in terra su cui era disteso un sacco a pelo. Intravide un balcone con alcuni vasi i cui fiori erano appassiti da tempo. In lontananza le cupole del centro romano, così vicino in linea d’area e così lontano dalle necessità di quei cittadini. In cucina trovò un tavolino da campeggio con un fornello a gas. Aprì il bagno, spoglio come il resto della casa, solo un rasoio e uno spazzolino da denti erano lasciati sul bordo del lavabo. Era un ambiente senza storia. Si diresse quindi verso la porta di quella che doveva essere la sala da pranzo.
Un uomo pendeva impiccato a una fune, in terra rovesciata era l’unica sedia che esisteva in quell’abitazione. Il commissario guardò quel cadavere e vide in esso qualcosa di diverso. Da sempre era a contatto con la morte e aveva maturato l’idea che ci fosse alla fine una sola verità, cioè che tutti si doveva morire. Sentì però per quell’uomo un rispetto tale che gli fece abbassare lo sguardo. Le sue mani lunghe e affusolate potevano essere quelle di un pianista, notò le unghie pulite e curate. Indossava una camicia chiara e un gilè grigio, come grigi erano i suoi pantaloni.
Gli occhi serrati, il volto chiuso in un’espressione ermetica, come di uno che non ha nulla da dire in sua discolpa. Era morto da qualche ora, ma le sue membra non erano ancora rigide, poteva sembrare vivo, come un attore che stesse recitando bene la sua parte. << Cosa ti stai portando nella tomba?>> si trovò a pensare lui sapendo che non avrebbe desiderato udire la risposta. Lo guardò ancora per qualche istante, un martire il cui destino si era finalmente compiuto. Di fronte a quei capelli mossi e un po’ lunghi, a quelle ciglia ben disegnate lui sentì quasi la necessità di farsi il segno della croce, con la reverenza che si ha dinnanzi all’Ostia, nel mistero della Messa.
Entrò l’agente che aveva lasciato fuori a prendere informazioni.
─ Cosa sei riuscito a sapere? ─ L’uomo ripose il taccuino nella tasca.
─ Ho capito solamente una cosa, cioè che si sentono tutti colpevoli! ─
─ Sarebbe? ─