Quando sono arrivato a Vaglia, dalla città, ero affamato di spazi
aperti, di case rurali con le facciate colorate dal verderame, con cui i mezzadri avevano da sempre irrorato la pergola di vite, baluardo contro il solleone dell’estate. E, non solo metaforicamente, di pollo fritto consumato sulla grande tavola della famiglia contadina.
Ottavio era il personaggio che più incarnava, a quel tempo, il mio immaginario cittadino di cosa doveva essere il contadino per antonomasia.
Pantaloni di fustagno, l’immancabile stecchino tra i denti, la pelata tra i capelli sempre occultata dal cappello e la flemma, il passo lento, più lento che l’età poteva suggerire.
E poi…gli occhietti vispi, furbi di chi non ha studiato la vita sui libri, ma ha imparato dalla vita.
“Ottavio che me lo venderebbe un coniglio?” (per la precisione un conigliolo). “Bah, che sa addire…”.
La casa l’avevo già frequentata, per curiosità, nei miei giri di perlustrazione a cavallo della vecchia nera Gilera 125.
Quella di Ottavio mi affascinava per la promiscuità degli animali che giravano sull’aia, e non solo: c’era di tutto, anatre, galli, paperi, pulcini che uscivano dalla stalla, chiocce che covavano tra il fieno. Un’Arca di Noè scacazzante dovunque. E poi c’erano quelle chianine meravigliose, pulite, tirate a lucido, differenti da tutte le vaccine delle altre stalle.
Si respirava ancora l’odore del concio, che faceva tanto campagna.
Un giorno accompagnai i’Leardi, il veterinario; doveva mettere il bollino all’orecchio di una vitellina. Ottavio maneggiava la bestia impaurita con la maestria frutto dell’esperienza.
Era una scena d’altri tempi.
Ma torniamo al povero conigliolo che aveva per destino la padella.
Mi presento alle quattro del pomeriggio come indicatomi. “Ah , vado subito a prenderlo”. Pensavo nella stia e l’aspetto sull’aia.
Per me incomprensibilmente, esce con una doppietta in mano. Va nel prato antistante mentre vedo uscire dalla macchia diverse coppie di orecchie tipo periscopio.
Bum! Ritorna con un mezzo vitello appeso per le orecchie ad una sua mano. “Eccolo”.
Il difficile fu scuoiarlo. Appeso ad una maniglia della porta di cucina dovetti ricorrere alle mie rimembranze di quando i’ babbo, di ritorno da caccia, spellava la lepre in terrazza.
Del Berti, a Vaglia, si raccontava una storia di guardie e ladri. O meglio di contrabbandieri.
Si era alla fine degli anni sessanta. Ottavio stava a Canapaia, “In vetta a Campolungo”, direbbe lui. Una sera, dopo cena, s’inerpica sulla stradina sterrata un camioncino. “Mi s’è guastato, che glielo posso lasciare, lo vengo a prendere domattina”.
“Lo lasci, lo lasci. Sotto la loggia”.
Qualche ora dopo la stessa sterrata viene percorsa da un altro veicolo: “Oh che traffico c’è stasera!”
“Finanza….Di chi è quel camioncino?”
I’ Berti finì in tribunale. Il cassone era pieno di balle. Dentro le balle…. le bionde. Contrabbando di sigarette estere.
Me lo vedo Ottavio, tra i carabinieri davanti al giudice, imponente nella sua toga nera: “Berti, cosa ha da dire alla corte…?”
“Signor Giudice….guardi queste mani…e che son mani da contrabbandiere?!”
L’argomentazione ebbe effetto: prosciolto in pieno.
Le mani di Ottavio erano di uno che aveva razzolato con la terra tutta la vita, prima per il padrone, poi in proprio. Negli anni si era adeguato ai tempi e, nonostante l’età, si era convertito alla meccanizzazione. Per la precisione al suo trattore Same, con nome da fiera africana, con cui, chissà perché, sempre la domenica, si faceva vedere a lavorare giù da basso sui campini di erba medica lungo la Bolognese. Ma forse voleva curiosare.
I Berti, figlio Paolo compreso, quello che sussurra ai cinghiali, hanno sempre dormito con un occhio sì ed uno no. Ma soprattutto con tutti e due gli orecchi dritti.
Una notte d’estate a Ottavio gli ronza un rumore di troppo. Si alza, agguanta la fatidica doppietta, non si sa mai, e si affaccia alla finestra. Dall’alto del poggiolo vede la sagoma di un camion con la ribalta posteriore abbassata e certe figure intente a spingere le vaccine dentro il mezzo: “Oh che vu fate!” Bum, bum.
Niente morti, né feriti…tentativo di acquisto indebito fallito.
Con questa storia ho addormentato i miei figlioli per qualche anno: “Babbo, babbo mi racconti i’ Berti…dai?!”
Un giorno a Vaglia da i’ Nanni, alla pompa della benzina: “Oh Ottavio, gli dura quella Seicento? L’è un po’ che ci scorrazza. Ma non era bigiolina?”
Gira impercettibilmente gli occhietti a destra e sinistra e mi viene incontro: “Signor Leonardo……questa è la terza…gli levo la targa…Sempre Seicento sono!”
Detto ad una “Signora Guardia”..!
Ottavio era irrimediabilmente il capataz della famiglia. “Il Vecchio”, come lo chiamava Paolo, voleva fare sempre di testa sua. Anche quando le gambe non lo seguivano più, si arrampicava sul seggiolino del trattore e diventava un pericolo viaggiante.
Mi ci volle del bello e del buono per farlo scendere dalla Cinquecento familiare, quando aveva già una ruota fuori strada. “Ottavio, gliela porto io”.
Mi avevano chiesto soccorso la Lucia, la Barbara e “la Vecchia”, impotenti dopo che inutilmente lo avevano pregato di tirare il freno a mano e di scendere, mentre l’auto andava all’indietro sulla strada in discesa di casa.
Arraspava invano con la frizione. Il cedermi il volante fu per lui uno smacco.
Ora è a dissodare i campi celesti, ma qui sulla terra ne è rimasto il seme: “Oh Paolo, vengo a pigliare qualche pressa di fieno”.
Augh.
Leonardo
Ottavio Berti, ovvero mani pulite (I più votati di Prosa e Poesia)
Ottavio Berti, ovvero mani pulite (I più votati di Prosa e Poesia)
ultima modifica: 2017-04-26T08:36:16+02:00
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