Amo i gatti da sempre; sin da piccola sono stati la mia passione.
Li trovo eleganti, non solo nelle pose e nell’incedere, ma anche e soprattutto per il loro comportamento: sono discrti, sanno indugiare, studiare e osservare con accortezza e con distacco.
Gli aforismi, i proverbi, le pagine di letteratura, dalle antiche alle attuali, ne tratteggiano profili variegati, anche contraddittori, ma comunque molteplici; per questo motivo non è facile parlare di gatti. È stato già detto molto o con esaltazione o con biasimo; ma in ciascuno dei casi hanno occupato da protagonisti le pagine di romanzi, poesie, racconti, fiabe memorabili. Nella narrazione di Poe un maestoso, splendido e vendicativo Plutone ci lascia agghiacciati per la sua magistrale e satanica opera di giustizia; nei versi di Baudelaire “les nobles attitudes /Des grands sphinx allongès au fond des solitudes”, ci imprigionano nell’evanescenza dei sogni cui appartengono, “ dans une reve san fin”.
In Alice ci stupiscono le incredibili sparizioni del gatto Ghignagatto che “svanì adagio adagio; cominciando con la fine della coda e finendo col ghigno, il quale rimase per qualche tempo sul ramo, dopo che tutto s’era dileguato”; nella fiaba di Perrault ci seduce e ci convince della bontà delle proprie mistificazioni un gatto con gli stivali; e l’elenco potrebbe allungarsi a dismisura.
Per questo motivo è sicuramente difficile scrivere di gatti; resta l’altra possibilità, sempre nuova e illimitata, di raccontarli attraverso il vissuto, affettuosamente, seguendo lo spirito di Lorenz che ne “L’anello di re Salomone”, sottolinea gli aspetti insoliti, curiosi e affascinanti del mondo animale, con rispetto e amore.
Io ne ho avuti quattro e ciascuno è stato particolare a suo modo. I ricordi che ho di loro sono legati a comportamenti che li hanno resi unici, tanto da spingermi ogni volta a dire che ognuno sarebbe stato insostituibile e che pertanto non avrei mai più potuto averne un altro.
Non è stato così ed ogni volta mi sono ricreduta.
Liolà è stata la prima. Aveva un nome maschile, ma le stava benissimo. Era un batuffolo nero quando i vicini me ne fecero omaggio. Non era di razza, ma la selezione naturale aveva favorito in lei alcuni caratteri ereditari a scapito di altri, associando forme e colori in una combinazione armoniosa e riuscita: pelo lungo, morbidissimo, di un nero bluastro; occhi verde intenso; le orecchie piccole e la testa minuta sul collo slanciato, le conferivano un’aria vezzosa e nello stesso tempo orgogliosa.
Trascorreva molte ore in giardino, perdendosi tra le rose e i cespugli di ortensie, ma bastava un richiamo e subito il suo musetto compariva tra il verde del fogliame.
Questo suo rispondere alla prima chiamata mi aveva convinta a portala con me anche nelle passeggiate nel bosco, sicura che all’occorrenza sarebbe ricomparsa.
Non la tenevo al guinzaglio, ma la lasciavo scorrazzare liberamente, anche perché in realtà era lei a tenermi costantemente d’occhio, anche quando si allontanava. Non l’ho mai persa, non l’ho mai dovuta cercare o richiamare a lungo; ricordo ancora distintamente lo scricchiolio delle foglie secche smosse dai suoi salti per tornare immediatamente al primo fischio. Nel viaggio di ritorno poi, stordita dalle corse, dalle arrampicate, dall’aria frizzante, si sistemava tra le mie gambe e dormiva sonni beati e profondi.
Fu proprio per questo che rimasi stupita e preoccupata quando non la vidi comparire subito mentre in giardino la chiamavo ripetutamente. Né il fischio abituale, né il suo nome ripetuto l’avevano fatta presentare
Avevo immaginato di tutto, mi ero disperata, ma subito mi ero ripresa, sostituendo l’ansia con l’azione: iniziai una ricerca capillare e scientifica, frugando il giardino palmo a palmo.
Liolà non c’era, sembrava volatilizzata.
Avevo cercato in basso; non so cosa mi spinse a cercare in alto.
Fu così che la vidi, nel senso che vidi due zampette e un pezzo di coda che ciondolavano da quello che in un primo momento mi era sembrato un groviglio di frasche.
Come aveva fatto ad arrampicarsi fin lassù?
Il vecchio pino era alto e frondoso tanto che l’avevo vista a mala pena, forse colpita da quelle appendici poco probabili per un albero.
Dormiva; dormiva uno dei suoi sonni di sasso; probabilmente, affaticata dalla salita e spaventata dal suo stesso ardimento.
La cosa peggiore era andare a riprenderla. Sapevo per esperienza che i gatti sanno salire, ma quando sono piccoli soprattutto, scendono con difficoltà perché dovrebbero saltare da
un’ altezza considerevole se commisurata alla loro mole.
Non mi persi d’animo; avrei scalato il pino se fosse stato necessario.
Presa la scala più alta, cercai di avvicinarmi il più possibile: il groviglio di frasche era in realtà un nido abbandonato e la mia gattina lo aveva occupato completamente.
Abbiamo fatto notte: io armata di una lampada tascabile l’ho guidata fino a me illuminandole uno alla volta i rami da usare come gradini; lei titubante e timorosa, stazionava vari minuti su di un ramo prima di procedere verso il successivo per arrivare piano piano fino alle mie spalle.