PAUSA
…che Jack temeva con terrore sarebbe durata a lungo; di sicuro non avrebbe potuto sopportare quella condizione di claustrofobica e solitaria esistenza per un tempo di durata incerta.
Pausa, una pausa che non sapeva di provvisorio. Jack si sentiva come un topo con cui il gatto giocherella nella certezza di aver fatto sua la preda. Ogni azzannata di consapevolezza penetrava tra le costole del pensiero insidiando gli organi vitali della sua Fede, della sua speranza, del nord magnetico che punta alla salvezza.
La Fede: Jack conosceva quella sensazione che fa sentire guidato ma partecipe di un disegno, quella spiritualità che aveva sentito nei suoi percorsi parrocchiali dove la religione, seppur con le proprie ipocrisie graffianti, concedeva un canale all’espressione di ciò che è ontologicamente in noi e che governa l’istinto e poi i sensi di colpa generati da quella stessa dottrina che vorremmo definire Dio.
Lì l’allontanamento dalla Fede, la colpa, il peccato, il giudizio e con tutto ciò l’annientamento di sé e della propria personalità affiorava in quel momento, in quel corpo morto che, nel frattempo, le guardie carcerarie stavano trasportando all’obitorio del penitenziario in attesa di un parente o di un amico che volesse dare l’ultimo saluto.
Per Stewart questo non sarebbe stato possibile, nessuno aveva un pensiero per lui e, sebbene sia umanamente comprensibile l’abbandono di una belva, quel silenzio dell’obitorio pareva comunque piangere il volo di un essere umano solo.
Jack cominciava a impazzire; poi tornò il desiderio di calma, il tentativo di autocontrollo che in tutta questa esperienza lo aveva tenuto in sé, dicendosi continuamente che sarebbe finito tutto e che, qualunque fosse il significato di questa esperienza, sarebbe arrivato dove il suo sentire lo proiettava. E cominciò a pregare, niente di liturgico ma solo un parlare al proprio cuore di essere umano, immagine metaforica che (mai come in quel momento) contrastava con l’immobilità del muscolo vitale di Stewart, morto ormai da un’ora.
Il sangue dello spirito riaffiorò in Jack facendogli provare la stessa sensazione vissuta nel filo d’erba all’arrivo della linfa: l’irrorazione, l’abbondanza, la pienezza, l’assenza provvisoria del dubbio, un sussulto, un’ampia distesa di spazio mentale. Jack si sentì sollevare, vide la stanza e il corpo di Stewart dall’alto, si librò nell’aria, abbandonò quell’incubo, era pronto al trapasso. L’ennesimo.
Cominciò a volare alto sopra le case, tutto si allontanava e si rimpiccioliva nella salita, case sparse, visioni d’insieme, il limite quasi circolare della città, le montagne, il mare, le nuvole, sopra di esse un mare bianco di panna montata e quel sole limpido che in altitudine già rende coscienti di dove si è, di come quella sfericità terrestre all’orizzonte renda oggettivo e inevitabile il nostro stare su una palla che ruota in un interminabile spazio di silenzio e freddo interiore.
Dalla stratosfera alla mesosfera, dalla termosfera all’esosfera e poi… Lo spazio infinito, un morso alla gola fece trasalire Jack, il sogno di una vita, volare nello spazio! Ma non avrebbe mai creduto di provare una sensazione così forte.
Arrivare lassù era come entrare nel liquido amniotico di Dio, un silenzio irreale e uno spazio di riferimenti sconosciuti ma familiari, uno smarrimento e una presa di coscienza priva di interpretazioni; nello spazio non esiste pensiero filosofico, c’è solo ascolto dell’anima che produce senso non definibile.