ATTENZIONE – LINGUAGGIO ESPLICITO
Suonò il campanello.
Entrò e c’era solo lei. Voleva fargli una sorpresa, gli disse, e lui si rese subito conto che lei voleva combattere la solitudine e darsi un’ultima speranza di affetto e d’amore. Cercò di assecondarla ma l’ansia cominciò a salire. Tutto nella sua testa malata era già stato calcolato: entro, due chiacchiere, tanti drink, coca e poi, appena la meccanica sessuale cominciava a funzionare e faceva ben sperare che durasse, cominciava l’orgia, la promiscuità, il caldo barattolo di cioccolata da spalmare su corpi umidi d’intenso piacere perverso.
Lei invece era lì, sola; e cominciò a piangere, a strillare, a contorcersi dal dolore. Voleva smettere di drogarsi, l’avevano beccata e sbattuta fuori di casa. Era lì, a casa di un’amica che le aveva concesso quella serata in solitudine con lui. Lui che non avrebbe mai immaginato di ritrovarsi lì, obbligato a riflettere con lei di vite pronte a sgretolarsi e incapaci di reagire al peso di un’esistenza non più governabile.
Lei parlava, lui si sedava. Alcool prima e poi fumo, coca, agitazione in aumento, sudorazione, palpitazioni davanti a una tragedia, dentro un abisso.
Lei piangeva, lui non capiva cosa stesse dicendo. Aveva un barlume di coscienza che lo spingeva a reagire ma era paragonabile alla forza di un bimbo che vuole spostare una macchina in discesa senza freno a mano: lo avrebbe schiacciato di sicuro.
In una recondita parte di sé avrebbe voluto dirle qualcosa di utile ma la velocità della spirale aumentava e ormai il cono vorace lo assorbiva in sé: un tornado che cercava di chiudersi in una scatola, un vortice di ansia, impotenza, frustrazione, solitudine cosmica e desideri di morte. Cominciò a fare lo stupido cinico chiedendole di smettere con quei discorsi inutili e frivoli e di cominciare a scopare.
Voleva un pompino, il suo cazzo era troppo moscio da tutto il carico chimico/esistenziale/ansioso.
Le prese la testa e le fece succhiare il calzino afflosciato e puzzolente. Lei si rifiutò e cominciò a gridare, scalpitare, ma nessuna forza poteva opporsi alla fame animale che si era impossessata di Jack.
La spinse a terra, le tirò su la minigonna di jeans, strappò il perizoma di pizzo nero e cominciò da dove natura non fa nascere; la divorò come il diavolo tiene in bocca la preda, la smunse come una mammella usurata e flaccida, la posò a terra come un martello che batte i chiodi. Era completamente impazzito, vedeva immagini, sentiva qualcosa ma tutto era proiettato in una dimensione che trascendeva l’essere umano, si sentiva potente come una diga che si infrange e ridà corso alla natura, distruggendo tutto ciò che ha davanti.
Sfinito in ogni angolo del proprio corpo-anima cominciò a sentirsi male. Jack vomitò più volte; lei, inerme come il corpo straziato di una strega impalata e pronta a bruciare pur di liberarsi dal dolore, in un moto di disperazione si alzò e prese la pistola che la sua amica le aveva mostrato.
La puntò alla nuca di Jack mentre stava vomitando sulla tazza del cesso.
Lui si girò, la guardò come uno zombie indifferente alla morte, prese la canna della pistola e se la mise in bocca.
Lei tremava, quasi crollando per l’immane tensione del momento e non riuscì a fare fuoco.
Jack la prese, la buttò sul letto e, mentre Marta strillava tutto il proprio dolore, la materia fagocitò lo spirito di Jack che sparò un colpo alla testa della ragazza.
Il silenzio successivo rese la stanza una cattedrale sconsacrata.
Nessuno aveva più un nome, nessuno era qualcosa che avesse un senso: materia ammassata sul letto e altra materia che si distingueva solo per le residue capacità di vita di Jack.
Andò indietro con le ginocchia, scese dal letto, la parola “verità” ora non si poteva più rifuggire, ora tutto era chiaro. Il limite con cui aveva giocato fino ad allora era inevitabilmente superato. La mammella delle sostanze aveva snaturato il suo cuore, la ricerca di un pieno nel vuoto aveva tolto i giunti che lo legavano alla realtà, una glaciale presenza sedeva dietro di lui nella stanza, il nulla risucchiava la sua presenza e i riccioli biondi di Marta, ammassati in grumi di sangue coagulato, rendevano il quadro reale e per niente evocativo.
Era TUTTO finito e niente aveva avuto un senso, come una fuga in cima a un monte nella consapevolezza di non poter più tornare, di non averne né le capacità, né il tempo, né la forza, né la spinta o la solidarietà di alcun essere umano.
Uscì con la pistola in mano, come a tenere con sé l’unico scampolo di vita reale vissuto negli ultimi dieci anni.
Montò in macchina, navigò a tutta velocità come per preparare l’anestesia alla morte.
A centosessanta all’ora prese una curva schizzando oltre il guardrail. Immagini finali: la collina di fronte, una luce di case sul monte.
Le mani sul volante già non erano più le sue e un risucchio lo portò dietro al velo della realtà.
Trovarono Marta e trovarono Jack. Finirono per diventare l’oggetto di discussioni per i tre giorni fisiologici della critica moderna, poco incline a comprendere le ragioni profonde, per l’incapacità di accettare che l’illusione di aver capito tutto non è reale e che il cammino è ancora lungo.
E che forse non esiste il male ma esiste la non conoscenza.