Metempsicosis – Ciò che si è perso (03)

Il padre di Jack era al suo terzo o quarto bicchiere di whisky, le sigarette non si contavano più, la madre seduta al camino piangeva ininterrottamente. Era arrivato il silenzio dell’incredulità, quando due amanti sentono che lo spazio di manovra è stato tutto percorso e non resta che salutarsi per sempre.
Le distanze incolmabili ci divorano dentro e la nostra speranza legata all’idea iniziale del sogno di un amore ci spreme nelle nostre energie più profonde, alla fine di un amore rimane la salita del ritorno a se stessi, dura e faticosa, per ritrovarsi più maturi o sconsolati di prima.
Il padre di Jack aprì la porta della camera, si diresse verso il lettino, e il neonato si svegliò di sobbalzo. Jack aprì gli occhi e vide suo padre: il risveglio brusco lo terrorizzò ma quando mise a fuoco si stupì di ciò che vide.
Si era sempre fatto l’idea di un padre cattivo e arrogante, sua madre lo aveva distrutto nei racconti, in sé quel mostro aveva rafforzato la propria identità di cattivo e colpevole, una falsa identità genetica tramandata per via orale. In realtà quello che vide destò in lui solo tenerezza e amore.
Il padre di Jack in quel momento era impaurito: il suo viso bianco incorniciato da una barbona nera, lunga e incolta lo faceva sembrare un reduce di Woodstock, un avvocato magro e incapace di sintetizzare i propri conflitti, un ex capellone psichedelico perso nelle strutture normative, un caos irrisolto come la famiglia che incoscientemente aveva provato a costruire.
Mentre Jack lo fissava suo padre cominciò a piangere. Era un pianto incontrollabile, una presa di coscienza del suo non essere pronto, del suo non esserlo mai stato, del suo comprendere che la vita pensata e sognata non appartiene alla realtà. Quando ci si allontana da noi stessi per costruire qualcosa che non ci appartiene, la forza magnetica del ritorno alla verità del sé ci uccide. Oppure ci porta lontano, in un posto fuori o dentro di noi che apparterrà solo alla nostra ricostruzione: poco del presente si salva.
Questo accadeva al padre di Jack e lui, neonato, si rese conto guardandolo che tutta la rabbia che lo aveva divorato nel rancore non aveva più senso, scivolava via nel pianto che prese anche lui.
Il padre: ”No Jack, non piangere figlio mio. Sono un uomo finito e perso, dentro me il vuoto ha cancellato ogni certezza, ho paura di me, ho paura per te… Dovrò andarmene, sparire, morire solo”.
L’anima di Jack esplose. Un intenso calore divampò nel suo piccolo corpo. Strillava, avrebbe voluto dirgli di restare, avrebbe voluto fargli capire che stava sbagliando, che il loro rapporto sarebbe sopravvissuto anche senza la madre, avrebbe voluto abbracciare suo padre e consolarlo, dargli fiducia e speranza, incoraggiarlo.
Ma non poteva: capiva che il corso della storia era quello, capiva che ovunque fosse non poteva cambiare ciò che era accaduto, era distrutto da quel dolore così forte, da quell’impotenza, uno stillicidio insopportabile, una sofferenza talmente vera da avere senso, una catarsi contemplativa e consapevole, una crescita immane verso non si sa cosa.
Il padre, come suo solito davanti alle crisi del bimbo, non sopportò la propria incapacità. Rimise il bambino nel letto come se rappresentasse tutto ciò che non sapeva tenere e chiamò la madre di Jack. Lei accorse in un attimo e quella fu la prima e l’ultima volta che Jack vide la sua vera famiglia unita.

Metempsicosis – Ciò che si è perso (03) ultima modifica: 2014-03-25T08:36:14+01:00 da Michele Ermini

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