“Figli miei cari e adorati, a voi salute e onore dal vostro anziano padre.
Quand’io ebbi modo di apprendere le cose della vita, fu il mio maestro a introdurmi nel mondo, a farmi scoprire quanta meraviglia c’è nell’udire il suono di una cascata o di un rivolo d’acqua che scorre fra qualche roccia spaccata qua e là su un solco di terra. E quando i lutti facevano scorrere il sangue, quando la terra era inclemente e sotto i colpi di una scure tremenda cadevano a centinaia i miei amati amici, i miei fratelli e gli uomini del mio tempo, esso mi mostrava come il sole sorgesse con rinnovata forza e vigore, tanta ne possiede da non demordere nel levarsi fra i pianeti ogni prima ora del giorno, rendendoci ancora capaci di guardare al mondo e alle sue cose, e di sussistere, in noi, nella nostra famiglia.
Io vissi con dolore e con dolore compresi, poiché mi rendeva sensibile ogni evento del mio tempo. Ma voi, miei figli prediletti, non avete ricevuto da me alcuna sorta di preparazione. La vita vi ha tagliato da sé i polsi e si è macchiata del vostro sangue cosicché questo si mischiasse con quello altrui. Non siete i puri figli della vita, miei adorati, ma siete nati dal sangue malato del Tempo, che vi ha corrotti e denaturati. V’ho allevato sapendo che le mie cure di padre a poco servirono per ripulirvi dell’immondizia mestrua della vita. Ma ecco, un filo d’acqua sorgiva io vi lascio, per far sì che v’abbeveriate alla mia memoria, segno incorrotto dal tempo, e troviate dentro di voi una fonte nuova di purezza. Solo ieri ebbi una visione, un evento grandioso, una lampo nella mia mente che, ecco, già m’abbandona! Già perdo ogni contatto con la vita, e il battito ai polsi si spegne, e l’umore nei miei occhi, che accolse il bello ,che osservò l’amore e la gioia, che si macchiò, ripugnandosi alla sua vista, del sangue dei miei compagni sul campo, è secco, asciugato da questo sole che già mi pare nuovo.
Ho creduto fino ad oggi di aver osservato gli uomini, i loro spazi, le loro regole, comprendendo, da lontano, le loro subdole maniere di relazionarsi con l’altro, i loro inganni, passionali e fugaci sotterfugi, le loro debolezze. Ma, ahimè, o figli, siamo tutti indistintamente uomini: sono anche le nostre debolezze. Ma io, io che ho conosciuto tali misfatti, che ho sentito fra le mie mani le pietre del tempio sgretolarsi , in un moto di rifiuto, ho abbandonato la comunità, ho cercato di allontanarmi dal mostro che abita dentro ciascuno di noi. Questo è pertanto il mio lascito.
Io Publio, nato a Cartagena nell’anno di Demetra 450 ab Urbe condita, adottato Magistro dal mio precettore Quinto Magistro Pulcro, generativi, mia prole, nell’anno 479, sotto il benevolo presagio di Apollo l’Obliquo, precettore a mia volta, questore in gioventù, pubblico magistrato, allievo degli eremiti alessandrini, vissuto ventitré anni nella steppa deserta d’Arabia, in nome della regina delle messi, mia protettrice, ave!
Quanto v’ho già detto ,o figli, sfugge via dalle mie mani e dalle reti della mente come l’acqua del fiume in piena fluisce verso il mare. Ma ecco, due eventi il dio mi fa riaffiorare nella mente e già sento un impeto che mi strappa l’anima dal corpo. Una forza tremenda, sostenuta dai venti di Zefiro, apre le membra e raggela il respiro già immortale, e la mater vostra, paziente e misericordiosa, mi riempie la mente e finalmente comprendo: l’amore ci muove verso la nostra sorte mortale. Il deserto circonda questo luogo, il deserto suggellò l’unione matrimoniale, la sabbia siglò il patto con gli dei. Ora, oh moglie paziente, stendi il tuo velo sul pendio arso dalle tempeste roventi: io l’accoglierò e saremo di nuovo sposi in eterno.
Coltivate, o figli, il sentimento della tenerezza amorevole, amate la vostra prole con dedizione e bontà, ma recate le stesse attenzioni a colei che lava le vostre estremità e accoglie le vostre toghe. Essa sarà chiave e sigillo dorato della vostra esistenza. Se non amate, figli, mi chiedo, cosa affollerà le stanze della vostra memoria nel momento in cui il Dio scuoterà le vostre vesti per aprire le vostre coscienze : allora le vostre teste saranno vuote di ogni ricordo e il cuore vacante di ogni battito. Amate lo Stato allo stesso modo: sarete liberati dalle colpe penali e per lo meno non vacillerete nel crimine e nell’iniquità.
In ultimo, in secondo, fratelli e figli adorati che mi raggiungete nella dimora eterna, operate la conoscenza prima d’ogni cosa. Divorate con gli occhi e con i sensi le cose del mondo. Sappiatele e abbiatele per vostre.
Date risposte alle questioni della vita,cosicché di fronte alla domanda finale avrete la risposta sulla bocca e la serenità nel cuore. Ciò che avrete imparato in vita, sarà la vostra vita per l’eternità. Ciò di cui avrete vissuto sarà ciò che vivrete. In vita si costruisce la morte,ora lo vedo bene. Ed ecco che perciò nella mia morte si affollano i savi egizi che lessi ad Alessandria sui papiri levigati, danzano le ombre dei viandanti del deserto, popolano le sale del tempio della mia consapevolezza quel Socrate, con i suoi allievi Euclide e Platone, e quel sapiente Aristotele, che furono il mio sostegno alle conoscenza del mondo in giovinezza. Essi mi fornirono le risposte di cui necessitavo: queste risuonano in eterno nella mia mente. Siano queste parole scolpite sulla pietra e viva io, nel momento della vostra ora, o figli, presso le vostre memorie.
In perpetuum,
Pater”
Tali cose ebbe tempo di scrivere Publio Magistro, filosofo e politico alessandrino, e la vita gli sfuggì dalle redini nel momento in cui ne aveva realmente compresa una parte infinitesimale. Levò la mando destra dallo scrittoio posto vicino al giaciglio e, alzata la toga, se la posò sul capo. Sfiorata dal sole, riscaldò per sempre la sua fronte, sede di grandi sapienze.
Ancora alcuni fremiti, spasmi della vita che ancora faceva vibrare i nervi, gli percorsero il corpo dopo la morte, e ivi, in un lampo, riconobbe Armar, guerriero nemico, nella sua livrea splendente e tirata a lucido, macchiato dello stesso sangue che lo ricoprì nel giorno in cui cadde sul campo, impugnando fra le mani una freccia, che egli stesso,dalle proprie mani, gli aveva scagliato in pieno petto.