ATTO TERZO
La scena del terzo atto è il grande locale retrostante il bancone del bar, sul finestrone in alto si vedono le bottiglie e i bicchieri (dietro ai vetri) e le sagome delle cameriere e di Begun muoversi, ci si accede da una porta in alto a destra, poi si scendono alcuni gradini o dal pianerottolo si può salire nel piano superiore dove ci sono camere e alloggi. Da questo locale si accede al cinema, una grande porta sulla sinistra dotata di pesanti tendaggi, oppure si accede ai gabinetti, dall’ingresso senza porta e con una porzione di parete piastrellata di bianco in vista (ogni tanto gente vi entra e si sentono i rumori degli sciacquoni e dei rubinetti aperti, oppure di porte che sbattono come in sottofondo). C’è un divano addossato alla parete di fondo e in primo piano un tavolinetto da fumo con il piano di vetro e tre vecchie poltrone. La luce è smorzata ma calda e rossastra (come se fosse il cuore della piazza), mentre entra violenta dalla porta che dà sul salone del bar e dai vetri del finestrone. Quando si apre il sipario sul divano ci sono due signore dei grigi che parlottano tra loro in piacevole conversazione, le voci non si odono ma si vedono ridere e parlare; dal cinema viene una musica di colonna sonora smorzata; due o tre grigi sono in piedi vicino ai gabinetti e parlano, altri entrano nei bagni, escono e ritornano nel bar; altri escono o entrano nel cinema. Dopo uno o due minuti tutti i suoni si spengono e la luce del locale diventa più rossa, la gente si ferma e un faro illumina la porta di accesso al piano superiore, il violino inizia una languida canzone che allude alla passione dei sensi (tipo “Je t’ami”) e scendono nel locale il fotografo, con aria stanca ma soddisfatta, e Anna la donna in rosso che si rassetta l’abito sui fianchi.
Vengono avanti e di siedono sulle poltrone. Lui stravaccato e lei che prende dalla borsetta uno specchietto e si guarda il viso con molta accuratezza. Poi estrae una serie di scatolette e di matite e li dispone sul tavolo, inizia a truccarsi mentre la canzone sfuma. La vita riprende, i grigi si muovono in tutte le direzioni, si sente il brusio dal bar e la musichetta dal cinema ma non disturbano; sul divano è cambiata la coppia.
Lei, Anna la vipera malinconica lo guarda sorridendo da sopra lo specchietto.
Anna: (con aria complice) “Allora? Ti è piaciuto?”
Fotografo: (come indispettito) “Certo certo, è stato tutto bello” poi, guardando il pubblico “E’ vorace come la mantide religiosa. E’ una ninfomane assatanata questa qui… E aspetta ancora suo marito! Figuriamoci, fa la pacchia in questa città… Città? O piazza?”
Al solo pronunciare il nome piazza tutto diventa più rosso, le pareti sembrano pulsare, i grigi si fermano dove si trovano, tutti lo guardano accigliati.
Fotografo: “Oddio! Anch’io sto diventando come loro. Ho detto piazza ma questa non è una piazza, qui siamo dentro a un budello zeppo di matti e di fumo, qui siamo dentro a una prigione dove piano piano si rincretinisce e…”
Anna si alza indispettita, dopo aver raccolto tutte le sue cose in fretta e furia, e se ne va senza dire più niente, come offesa dalle sue parole, ritorna nel salone del bar; i grigi scuotono la testa e riprendono i loro spostamenti, lui si alza in piedi.
Fotografo: “Anna! Aspetta!”
Si rimette a sedere con aria sconsolata.
Fotografo: “E’ permalosa questa… Questa donna. Più voragine che donna, un unico gigantesco orifizio direi. Una specie di cisterna zeppa di liquidi che invischiano, albumina o albume d’uovo riscaldato abitano dentro di lei. E’ come quei mostri di Alien, solo che la sua è la testa cattiva della mantide che mentre ti ama sembra pregustare il pasto che farà. Lei mi ha posseduto e io sono stato solo un…”
Si alza ed entra nei gabinetti di corsa, intanto un gruppetto di grigi passa quasi ballando vicino al tavolino da fumo e deposita la sua sacca tra due poltrone, il violino ha ripreso a suonare un motivetto allegro; dopo poco esce dai bagni e torna a sedere.
Fotografo: “Cristo, che sudicio in questi cessi. Poi una puzza! Certo, con tutte le schifezze che mangiano qua dentro!”
Dalle scalette d’accesso del piano superiore intanto è scesa una donnina piccola e tutta vestita di nero, come le vecchie di tanti anni fa, con i capelli grigi raccolti a cipolla e un bambino scheletrito che tiene per mano, anch’esso vestito di scuro e con un’aria tristissima, abbacchiata; si avvicinano alle spalle del fotografo che sta guardandosi le mani annusandole con aria schifata, la donna esita con la mano tesa, poi lo tocca sulla spalla lievemente, questo fa un salto quasi gridando.
Fotografo: “Ehi! Cos’è? Chi è lei? Che vuole? Cosa volete voi due?” la guarda, la vede spaventata e cambia il tono della voce “Cosa vuole signora? Posso aiutarla?”
Donna: “Mi scusi, non volevo proprio irritarla, mi scusi ancora. Io, vede… Avrei bisogno…”
Fotografo: “Dica pure signora, se posso… Dica, dica…” (cominciando ad avere l’aria scocciata)
Donna: “Io, noi, lei ci dovrebbe fare una foto, una bella foto a tutti e due…”
Fotografo: (sorridendo come se la donna gli chiedesse qualcosa al di fuori delle sue possibilità) “Una foto? Io? Ma signora mia, io…”
Donna: “Ma certo! Lei è un buon fotografo, ormai lo sappiamo tutti. Noi, vede, io devo fare in modo che questa foto…”
Fotografo: “Figuriamoci! Non se ne parla nemmeno… E poi non ho più la mia macchina e…”
Donna: “Eppure la sua sacca è ai suoi piedi. Perché non vuole aiutarci? La prego”
Fotografo: (guardando la sua sacca come se fosse un miracolo) “E questa? Come è venuta qui? Non l’avevo più vista da…” (la prende e la apre, poi freneticamente controlla il contenuto, quando rialza la testa ha l’aria soddisfatta) “C’è tutto! C’è proprio tutto!”
Donna: “Appunto, se lei fosse così cortese da farci una foto noi…”
Fotografo: “Ma signora, cosa ne vuol fare? Cosa se ne fa di una foto se lei, voi, come tutti, siamo ospiti di questa piazza magica? La chieda direttamente a Begun, lui sicuramente…”
Al nome “Begun” la donna si stringe nelle spalle e abbassa la voce con aria spaventatissima guardandosi alle spalle, intanto da dietro i vetri del finestrone si scorge la sagoma dell’oste rimanere immobile come se guardasse proprio loro.
Donna: “Shhh! Zitto, per l’amor di Dio. Non lo pronunci neppure quel nome. Lui non vuole che io le chieda una foto, se lo viene a sapere…”
Fotografo: “Come sarebbe che non vuole! Che male c’è a volere una foto? Ma qui dentro è di norma sentire queste cose così stupide? Una foto non ha mai fatto male a…”
Donna: (ancor più terrorizzata) “Zitto, non dica altro. Se vuole aiutarci ci faccia una foto insieme, io e lui, povero piccolo, nonna e nipote! Siamo qui da dieci anni, lui ne aveva solo uno, lontano dalla nostra famiglia, dai miei figli e da sua madre! Rimasti qui, imprigionati in questa ragnatela. In un giorno d’estate… Mamma rimani qui, io e Giulio torniamo un attimo in albergo, torniamo subito.” (gli occhi le si inumidiscono e la voce le comincia a diventare roca) “Abbiamo atteso per ore, la piazza vuota come un incubo, nessuno per chiedere aiuto, nessuno per parlare, un gran peso sullo stomaco e vertigini. Poi lui, poverello, cominciò a piangere. Aveva fame e mia figlia non tornava, cominciai a bussare a quelle che sembravano porte ma nessuno rispondeva. Poi si aprì la porta di questo locale e io entrai… Dieci anni fa!