8:25 am – At work
Varco le porte del grattacielo che ospita all’ottantatreesimo piano il mio ufficio seriale: un grosso open space con i vari loculi della morte che ogni giorno accolgono le mie membra e quelle dei miei colleghi. Intravedo la capo reparto che attende l’ascensore. Sto a distanza. Quella stronza frustrata potrebbe già iniziare a frullarmi le palle in ascensore, 3 minuti prima di averne il diritto contrattuale. Ogni giorno della mia vita maledico il marito che ha avuto la geniale idea di lasciarla per la segretaria. Geniale per lui, ma per il resto dell’umanità? Si rende conto sto scriteriato di aver messo in serio pericolo la vita di centinaia di innocenti, fra me, i miei colleghi di lavoro e qualsiasi altra persona possa interagire con lei? Non mi vede o fa finta di non vedermi e riesco ad infilarmi nella mia postazione senza incrociare il suo sguardo. E’ già qualcosa. Forse quella giornata non è iniziata così male…
La mattina passa lenta fra il telefono che squilla, le urla del turpe individuo (sopra descritto) facente le veci del mio capo con la vittima di turno, che per fortuna oggi non sono io. Due o tre volte a nuova segretaria dal seno prosperoso e dal culo all’insù distrae piacevolmente i mie calcoli. Peccato che abbia la faccia da topo, se no un pensierino ce lo avrei fatto. Philippe mi dice sempre che il viso non è importante, puoi sempre chiudere gli occhi ed immaginarti quello di Kim Basinger. Ma lui è fissato con Kim Basinger, e poi a me piace tenere gli occhi aperti quando faccio sesso con una donna. La voglio guardare e mi deve piacere, non posso farmi una con una faccia da topo come quella…
Eppure il suo ancheggiare è come una sferzata di poesia nel marasma di grigiore numerico a cui mi dedico tutti i giorni. Ebbene sì, faccio il contabile, gioco con le formule, mi intristisco con le cifre, mi scopo i numeri. Preferisco vederla così che ripensare al ragazzetto scialbo e assolutamente non propositivo che fa decidere al padre il proprio percorso di studi. Se fossi tornato indietro avrei fatto il poeta. Sono un poeta mancato io. Ma dai, non sparare cazzate, stai zitto e vattene a pranzo che hai una fame boia…
1:00 pm – Lunch break
Oggi non ho voglia di parlare. Allo scoccare della pausa pranzo mi lancio in ascensore, prevenendo qualsiasi tentativo di farmi incastrare in un qualsivoglia pasto in compagnia. Momenti in cui si continuano a discutere le questioni dell’ufficio, come se si fosse semplicemente spostata la poltrona. No, mi rifiuto, devo staccare. Raggiungo il bar dell’angolo. Mi siedo in un tavolo vicino alla vetrata che da sulla strada.
Il via vai di gente allevia le mie pene. Li vedo spostarsi ritmati per le solite corsie e cerco di intuirne i pensieri: il marito che è sicuro che la moglie gli faccia le corna, la donna preoccupata per il nodulo al seno che le hanno diagnosticato, il ragazzino che si tormenta su come riuscire a convincere i suoi a lasciargli la macchina per il week end, il barbone che si chiede se l’ultimo posto dove gli hanno dato un pasto caldo sarà così generoso anche oggi.
Ordino la solita insalata e un insipido hamburger con patate. Una bottiglietta d’acqua per mandare giù il tutto. Di Susan neanche l’ombra. Che le sarà successo? In tutti questi anni non è mai mancata. Sarà malata di sicuro. Peccato, contavo nella sua carica di buonumore per rientrare in ufficio e affrontare la riunione del pomeriggio.
Mangio velocemente, ordino un espresso, pago e rientro in ufficio.
La riunione si rivela noiosa proprio come immaginavo. L’ordine del giorno è discutere sulle strategie per l’acquisizione di un nuovo cliente. Faccio finta di ascoltare e accolgo favorevole ogni proposta, senza sforzarmi di capire realmente cosa si dice. Mi fido dei miei colleghi, e poi d’altronde io là dentro non valgo niente. Per mio volere, e anche per quello di alcune persone che non apprezzano il mio essere schivo e che giocano a farmi la guerra. E io gioco di furbizia e li assecondo, spiazzandoli. Lo so, è da vigliacchi, ma funziona… Finalmente la riunione finisce e arriva il momento di andare via da lavoro. Anche oggi è andata!
5:30 pm – The rat’s lair
Scendo per strada, mi infilo in corsia, rifluisco nel grande flusso umano che fa ritorno a casa. Ripercorro all’inverso tutto il percorso fatto stamattina. Scendo nei cunicoli della tana e ne percorro i corridoi. Un mendicante suona la fisarmonica ed intona un canto slavo che mi comunica una terribile malinconia. Salgo sul treno, stavolta una fortuna fottuta mi fa trovare un posto. Oggi è proprio la mia giornata fortunata!
Faccio finta di non vedere una vecchietta in piedi vicino a me. Oggi non mi va di essere buono, non mi va e basta…
I 21 minuti e 30 sono lunghissimi, ma alla fine arriviamo alla fermata di casa mia, quasi il capolinea. Sono rimasti in pochi nei vagoni. Lo svantaggio di vivere in periferia, poco movimento per le strade e maggiore rischio di rapine o altre violenze gratuite, soprattutto la sera. La mia tattica è camminare dritto e velocemente verso casa, senza guardare nessuno in faccia. E così faccio anche stavolta. Percorro i cunicoli deserti, quando improvvisamente sento l’urlo soffocato di un uomo.
Mi giro e intravedo due ombre nell’angolo nascosto di uno di quei tunnel intersecati. Pian piano i contorni delle persone si fanno più nitidi. Un uomo tiene le mani in pancia appoggiato al muro, mentre un individuo con un cappuccio estrae dal suo addome un pugnale pieno zeppo di sangue. L’uomo, in un ultimo disperato istinto di sopravvivenza mi vede e fa per chiedermi aiuto, ma l’assassino lo finisce con un’altra accoltellata che lo fa cadere a terra. Io non riesco a muovermi. Lo stupore, la pena ed il successivo terrore mi paralizzano. Il killer si gira e mi guarda. I nostri occhi si incrociano. Nel suo sguardo la furia omicida, una fame di sangue che, in quella frazione di tempo, riesco a percepire pienamente e che si trasforma in me in pura paura. Quel viso lo conosco. Si tratta di una donna: è Susan, la mia cameriera, quella gentile e sorridente ragazzina dallo sguardo assente. Cazzo, sono nella merda!
Immediatamente esplode in me la voglia di vivere, di salvarmi, di sopravvivere…. Mi lancio in una corsa impazzito dal terrore. Sento che lei mi segue, sento i suoi passi, il suo affanno. É dietro di me, non si stanca. Un dolore cupo mi invade il solito ginocchio, quello operato due anni fa. Proprio adesso ti devi mettere a far lo stronzo? La cosa mi fa rallentare un pochino. Lei non demorde, è sempre vicina. Vedo a 20 metri la banchina dei treni. Cosa faccio adesso? Il rumore di un treno vicino. Continuo a correre, mi giro a vedere quanto è distante. I suoi occhi mi guardano e sorridono di uno sguardo feroce, come quello di un grosso boa che è riuscito ad introdursi nella tana del ratto, riesce a scovarlo e lo insegue per i cunicoli, finché non lo mette spalle al muro senza scampo…
vrebbe potuto divorarmi, ma il caso ha lavorato a mio favore, risparmiandomi una morte atroce e lenta sotto le sue stilettate. In compenso me ne ha regalato una dolce ed immediata schiacciato sotto le ruote del treno che proprio nel momento in cui mi rigiro passa sui binari. Sfracellato e fatto a pezzi in quella fredda fossa impersonale in cui finisco dopo un salto nel vuoto che dura pochi secondi, ma che per me vale una vita intera…
Barbara Picci