7:05 am – George’s home
Il silenzio profondo della notte ormai assopita viene rotto dalla voce entusiasta della stessa rompipalle di ogni dannata mattina. Con voce squillante da gattina in calore, alle 7 e 05 in punto, mi saluta augurandomi il buongiorno e vomitandomi addosso le ultime notizie: omicidi, rapine, morti sospette, violenze e altre simpatiche carinerie da dolce risveglio.
Inizia così la mia giornata seriale da impiegato seriale. Mi trattengo a letto ad ascoltare quell’uccello del malaugurio per 2 minuti e 59, esatto momento in cui mi sollevo maledicendo quella grama vita da impiegato seriale in una vita seriale. La notizia del giorno che sta sconvolgendo New York è quella di un presunto killer che opererebbe nei sotterranei più trafficati della città: la subway. Già 3 i casi di omicidio:una donna e due ragazzi, in diverse linee e localizzazioni, ma a quanto pare lo stesso modus operandi.
Capirai… Come se l’accoltellamento fosse una novità in quella città, macchiata a sangue dalla violenza. 4 minuti per una doccia, 6 per una rasata veloce, latte nel microonde, 5 minuti per indossare il solito abito seriale da rappresentanza, 3 minuti circa per colazione veloce, valigetta ventiquattrore e alle 7:15 esatte mi trovo già fuori casa al freddo e al gelo di quelle strade seriali, in una mattina seriale della mia maledetta vita seriale.
7:20 am – New York City Subway
Per recarmi nel mio entusiasmante loculo lavorativo, ogni meraviglioso giorno della mia vita, come le tante altre formichine di questa spersonalizzante città, scendo ai piani bassi, nei suoi tortuosi tunnel sotterranei, come quei grossi ratti schifosi che costruiscono le loro terrificanti tane fra cunicoli labirintici inestricabili. La solita seriale sensazione di attanagliamento, da mancanza d’aria, mentre vengo circondato dalle altre macchinette umane che, proprio come me, ogni mattina rifluiscono in quelle gallerie per smistarsi nella catena di montaggio della grande anima della città che tutto osserva e tutto può.
Compro il Times e mi mischio fra la folla che attende il treno, che arriva spaccando il minuto dopo appena 2 minuti e 20. Sono in perfetto orario, come ogni giorno d’altronde. Mi appoggio ad un palo, schiacciato dalla ressa e cerco di sbirciare il giornale. Non si parla d’altro… In prima pagina ancora il killer della metropolitana. La città è in allarme. Si raccomanda la massima attenzione. Ma che due palle, ciò significa maggiori controlli, terrore generalizzato, crisi isteriche dei soliti terrorizzati sociali. Mi guardo attorno. La solita manciata di visi anonimi con sguardi altrettanto anonimi. A volte mi chiedo cosa pensino, altre ancora se pensino…
La ragazzetta triste con evidenti pene d’amore, il signore di mezza età che si tormenta per la calvizie sempre più accentuata, la donna in carriera che pensa all’appuntamento dall’estetista da rimandare. Ogni mattina ognuno di loro diventa un singolo personaggio, ingloba e fa suo un copione che io mi prendo la briga di assegnargli. Anche perché, in caso contrario, quei 21 minuti e 30 che mi dividono dalla fermata designata per la mia discesa, sarebbero di un tedio indescrivibile. Il ragazzino con le cuffie incrocia il mio sguardo, ma lo distoglie subito. Nessuno ti guarda. Nel momento esatto in cui entri là sotto diventi solo un numero, uno dei tanti, un’ulteriore presenza scomoda con cui impattare la propria esistenza. Come loro lo sono per me, così io per loro, immagino…
8:01 am – On the surface
Finalmente il treno arriva a destinazione. Iniziavo a soffocare fra gli odori e i respiri di quelle persone. L’affanno dell’aria che mi viene sottratta, l’ansia polmonare del respiro che mi viene rubato. Finalmente posso respirare a pieni polmoni l’umidità unta di polvere tipica del tunnel. Proprio come quei grossi ratti che in quel fetore di terra ci costruiscono le loro tane. Percorro i vari cunicoli fino alla superficie.
Finalmente aria vera. Il solito scenario di ogni giorno: palazzoni che sfiorano il cielo, taxi sfreccianti, robot umanizzati che percorrono le corsie preferenziali che li conducono esattamente nel loro seriale posto di lavoro. Ho sempre paura quando mi ci inserisco, un terrore assurdo di non tenere il ritmo, di non riuscire a stare al passo e venir quindi schiacciato dalla folla. Se entri in corsia non puoi deconcentrarti o cazzeggiare, devi comportarti responsabilmente e seguire la corrente, senza essere di intralcio. Mi ci immetto e devio solo per un caffè veloce nel bar d’angolo sotto il mio ufficio, proprio come ogni mattina della mia esistenza seriale.
Susan oggi non c’è… Peccato, è un piacere far colazione col suo sorriso, mi da una carica in più sapere che qualcuno finalmente mi vede, si accorge che esisto, percepisce la mia essenza. Ormai da 4 anni frequento quella zona della città, da 48 lunghi mesi faccio colazione con una ciambella e un deprimente caffè annacquato in quell’altrettanto deprimente bar di passaggio. A volte ci passo pure a pranzo, solo o con quei due o tre colleghi che, a differenza degli altri, non mi danno quel terribile senso di nausea di cui non sono ancora riuscito a capire le ragioni esatte.
Devo riprendere il discorso con la strizzacervelli dell’ufficio, quella rompipalle sempre all’erta per monitorare ogni mio comportamento. Sicuramente Susan oggi ha il turno pomeridiano. Un motivo in più per fare una passeggiata in pausa pranzo. Susan mi piace. Nonostante lo sguardo un po’ triste e assente di alcune volte, è gentile e mi sorride sempre, cosa così rara in questa città. Non me la farei mai personalmente, ha qualcosa che non mi convince, come uno strano senso di inquietudine, però ci parlo talvolta, e mi fa tenerezza… e poi mi sorride…
Barbara Picci