Il metodo Montessori

Nel quartiere degradato del centro storico, a Firenze, tra Borgo Allegri, la piazza delle Rovine (bombardata durante la seconda guerra mondiale), alcune baracche di legno ospitavano l’asilo e le scuole elementari, sezione staccata della Scuola elementare Dante Alighieri, che aveva la sede all’ombra del Tribunale, vicino alla casa di Dante.
Baracche di legno, costruite in fretta e furia, per dare un’istruzione ai ragazzi delle famiglie del quartiere: ladri, prostitute, carcerati, ricettatori. Il metodo didattico prescelto: il metodo Montessori, ritenuto idoneo per sperimentare un nuovo modello educativo che poteva migliorare la situazione sociale degli alunni, o meglio delle alunne, in quanto era doverosamente una sezione femminile, a parte l’asilo che invece era misto.
I fiocchi di diverso colore. a seconda della classe di appartenenza. indicavano il livello di età, e facevano bella mostra sopra gli immacolati grembiulini bianchi. Le treccine, le code, le frangette, ordinate e ben pettinate si confacevano allo stile indicato dalla direzione che le maestre, con il tradizionale grembiule nero e colletto di pizzo, impartivano con serietà ma anche con affetto.
La paciosa Isolina Marchetti, mia insegnante per cinque anni, è quella a cui devo la mia cultura e il metodo di apprendimento, la costanza e l’impegno che ancora mi accompagnano dopo tanti anni. Il desiderio di rispettare tempi e scadenze, e di osservare regole e indicazioni. I quaderni a righe di prima, poi di seconda e di terza, le cornici e le greche sulle pagine corrette e ben ordinate, i voti con la matita rossa e blu che indicavano il risultato ottenuto. Il gesso che strideva sulla lavagna, i fiori nel vaso sulla cattedra, il silenzio durante le lezioni, i banchini sperimentali in formica e metallo, presentati in anteprima nel Museo della Scuola in Palazzo Gerini. L’edificio seicentesco, nobile e blasonato, ospitava la Biblioteca Pedagogica Nazionale e il Centro Didattico Nazionale di Studi e Documentazione (oggi ANSAS, www.indire.it). Anni storici per la storia della scuola e per le sperimentazioni in corso, per cui la collocazione di una scuola elementare accanto all’istituto ne faceva un perfetto insieme. Spesso le alunne venivano condotte nelle sale di Palazzo Gerini per provare banchi e sedie, per verificare lavagne, mappamondi, o per ascoltare brani di libri di testo o guardare illustrazioni di libri per bambini.
Allineate e ordinate, in fila per due, in silenzio, si varcava il portone che andava dentro il palazzo per noi quasi un mito, un luogo di fascino, una zona magica. Nei saloni, nelle aule, nelle stanze delle mostre vivevamo il nostro attimo fuggente con particolare rapimento, credendo di vivere un momento fantastico, irripetibile.
Erano i tempi del dopoguerra, ancora scarseggiavano i cibi e le tavole erano semplici e povere, ricche di polpette e di lesso, di patate e poco più. Il pollo e l’arrosto erano i piatti della domenica arricchiti a volte anche dal vassoio di paste della pasticceria del quartiere. I bambini erano ancora gracili e bisognosi di cure, per cui la quotidiana dose di “olio di fegato di merluzzo” veniva sorbito a malincuore, addolcito dalle mentine colorate o da una cucchiaiata di zucchero. Ci mettevano in fila lungo le pareti dell’aula e la bidella di turno ci versava da una ampolla di vetro il nauseabondo liquido oleoso, a cui facevamo boccacce disgustate, ma serviva a dare forza e a sostenere.
A metà mattina arrivava anche il latte della Centrale che veniva fornito sempre per contribuire alla crescita delle nuove leve, e a Natale si aggiungeva anche il piccolo panettone inviato dal sindaco, il mitico Giorgio La Pira. Per anni ho creduto che il sindaco fosse un pasticcere che ci forniva quella prelibatezza, per di più nel formato adatto a noi bambini, piccolo e trasportabile nel panierino di paglia in cui portavamo il bicchiere e il tovagliolo, con il dovuto simbolo di riconoscimento ricamato dalla mamma o da una parente in grado di adoperare l’ago.
A distanza di anni che piacere ritrovare alcune amiche delle elementari rimaste ancorate ad un quartiere storico, tipico, caratteristico, quello di Vasco Pratolini, di Sant’Ambrogio, di Santa Croce, dove i ricordi riaffiorano per magia. Un quartiere che ancora ha una storia da raccontare e che fa palpitare per i colori e l’atmosfera e dove ancora troneggia il Palazzo Gerini, dirimpettaio della bella Loggia del Pesce trasportata dalla storica piazza del Mercato Vecchio, un tempo in quella zona che oggi è Piazza della Repubblica.
La casa di Vincenzo Ghiberti di cui si legge l’insegna scolpita sul portone, la bottega del Verrocchio, la casa di Michelangelo Buonarroti … famosi condomini di un quartiere che ancora ha una sua connotazione e dove la scuola di un tempo non esiste più. Un giardino e uno spazio giochi sono i visibili resti di quello che un tempo era la biblioteca di quartiere, la Biblioteca Barbera, che ha aiutato i ragazzi della zona a leggere e ad amare i libri, avvicinandoli alla cultura e alla conoscenza. Oggi intestata a Gratta ovvero l’illusionista, attore, mangiatore di fuoco che negli anni ’50 faceva sognare noi ragazzi, nella mitica Arena Caroli, uno dei pochi divertimenti a buon mercato che gli abitanti si potevano permettere. A parte il Cinema Garibaldi, ricettacolo di perditempo e ubriachi dove il pavimento era letteralmente coperto di bucce di semi salati e di lupini, cartacce e liquidi organici di varia provenienza.
Un quartiere dove la scuola era il fulcro, la biblioteca il punto di incontro e di riferimento e dove per anni i ragazzi hanno trovato uno spazio pulito, sano e stimolante.
Grazie alle insegnanti che si sono prodigate con impegno e con attenzione, con affetto e benevolenza e che hanno trovato il metodo giusto per insegnare le tabelline e la grammatica, la composizione e la ginnastica. Una apposita maestra ci faceva esibire in dimostrazioni ginniche più vicine ad un saggio di marca fascista che di sport.. ma lo facevamo all’aria aperta e giocosamente e questo per noi era già sufficiente.
Grazie a Maria Montessori che ci ha insegnato l’alfabeto, già dalle classi dell’asilo, dove avevamo anche i giochi ad incastro per lavorare con dimestichezza con forme e colori, ai telai dove abbiamo imparato fino dai primi anni a fare fiocchi e nodi, ad allacciare le stringhe delle scarpe e soprattutto a prenderci cura del nostro ambiente di lavoro, dove ogni giorno avevamo compiti da svolgere a rotazione, mansioni che svolgevamo con impegno ed allegria, sapendo che stavamo lavorando insieme agli altri per un obiettivo comune.
Una scuola che aveva metodi, valori, regole e legami e che ha lasciato un segno profondo indelebile in quanti hanno vissuto su quei banchi di allora, con quegli insegnamenti solidi e vivi
che ci sorreggono ancora dopo tanti anni e che ci riportano a momenti di serenità e di crescita individuale.

Il metodo Montessori ultima modifica: 2014-08-06T08:32:28+02:00 da Paola Capitani

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