La casa in cui, nel febbraio del 1960, mi trasferii con tutta la mia famiglia era di proprietà della municipalizzata elettrica dove mio padre lavorava. Si trovava all’ultimo di un palazzone di otto piani e a mia madre non era mai piaciuta. Ma soprattutto non le era piaciuto trasferirsi dal quieto terzo piano della casa di Monteverde, dove vivevamo ad oneroso affitto libero, vicinissimi a quella stretta cerchia di amici, compari e zie che furono la presenza degli adulti nella mia infanzia. E fino alla sua morte non vi si adattò mai.
Il grande edificio era a forma di U e verso l’apertura c’era un battuta di terra mista a pozzolana interrotta sempre più frequentemente da macchie verdi di erba gatta e gramigna man mano che ci si allontanava dal centro del nostro campo di calcio, dove quattro sassi segnavano la base dei pali immaginari delle porte.
Più in fondo verso l’antica linea Ostia-Piramide, una catasta enorme, circa quindici metri per tre, di foratini, i mattoni leggeri usati in edilizia per gli intramezzi, lasciata lì da chissà chi. Quest’ara atzeca in laterizi, riserva infinita di materiale di supporto ai nostri giochi e in cui negli anni scavammo passaggi e camminamenti di immaginarie postazioni, era chiusura e confine naturale del nostro territorio; quello legale per i nostri genitori, che in questa quinta naturale, erano spesso distrattamente sbircianti dalle finestre. Spettatori poco vigilanti della rappresentazione quotidiana dei nostri giochi e delle nostre interminabili partite a pallone.
I quadrilateri di strade costruite intorno ai nuovi palazzi dell’urbanizzazione fine anni 50’, avevano racchiuso il vecchio terreno in campi variamente rettangolari, più bassi di 2 o 3 metri dal nuovo piano di calpestio di automobilisti e pedoni. Queste ripide scarpate erano completamente ripiene del materiale di risulta, residui delle lavorazione dei manovali che avevano costruito edifici, strade e marciapiedi, lì abbandonato, a cui nel corso degli anni si erano aggiunte le immondizie urbane.
Un giorno di primavera mio padre tornò a casa con la rivista “Oggi” aperta e discuteva animatamente con mia madre. Dopo qualche minuto riuscii a capire il motivo di tanta agitazione. La rivista portava un articolo ed una foto presa dall’alto di un signore circondato da un assembramento di ragazzini in magliette e pantaloncini corti, praticamente tutti i miei compagni di giochi. Il signore in questione, un certo Caronti, inquilino e spettatore di quel teatrino quotidiano di operai aspiranti impiegati di cui anche lui faceva parte, si era preso cura, era scritto, di questi ragazzi che giocavano abbandonati tra macerie ed immondizie, e li aveva come adottati: “…cercando di sollevarli dalla strada nella quale vivevano, emblema di quello sviluppo tumultuoso che lasciava dietro sé sacche di povertà e di emarginazione”. Non seppi mai se lo fece per ambizioni truffaldine, per soldi o per altro.
In questi luoghi le bande di ragazzini di ogni palazzo avevano nel proprio quadrilatero di appartenenza il loro feudo, la loro contea da utilizzare e presidiare in esclusiva.
La nostra banda era tutta composta dai figli dei colleghi della municipalizzata dove il mio, insieme agli altri padri, faceva l’operaio. Tra questi c’era Claudio, del quinto piano della scala C. Un biondino con una corta e crespa criniera leonina che ingigantiva una testa già grossa di suo. Tosto. Già piccolo capo, ma che non avrebbe mai conosciuto l’odore e il sangue della sconfitta e l’ebbrezza della vittoria, nel mondo degli adulti. Finì la sua breve vita affogato nell’acqua limacciosa di una fresca marana estiva, dove si era recato insieme al buon Franco del sesto piano della mia scala, la D, grande ala, maratoneta irraggiungibile sulla fascia, con discreta tecnica di palleggio alla Domenghini. Con loro, in quella tragica uscita, c’era il futuro sottoufficiale dell’esercito Felice. Occhi cinesi su una faccia come una virgola nera, con capelli corvini lisci e untuosi. Abitava il palazzo dietro il nostro verso la Cristoforo Colombo, il più vecchio palazzone di otto piani di via Alessandro Severo, il 73, abitato dalle famiglie dei dipendenti del poligrafico di stato. Sguardo sfuggente. Da traditore. Un piccolo traditore piagnucoloso, come traspariva dalla foto sul giornale, dove, rannicchiato vicino alla sua bici gettata di lato a fianco di un costone tufaceo, era schiacciato dal suo primo vero incontro ravvicinato con la morte.
Mauro Paracini