Ogni tanto ci si scontrava con le bande di altri palazzi. Generalmente a distanza, con sassi tirati a parabola, a mo’ di tiro di mortaio. Raramente gli scontri erano ravvicinati e in uno degli ultimi in cui, ancora piccolo, fui coinvolto, venni salvato dai fratelli Benincasa, del quinto piano della scala C, che letteralmente mi sollevarono e correndo mi trascinarono via dagli ultimi calci e dai primi sassi che iniziavano a cadere intorno a noi in fuga.
Ma noi avevamo la nostra arma segreta: Marcello. Abitava al quarto piano della mia scala. Era il terzo di tre fratelli ed una sorella, di cui il più grande non sarebbe sopravvissuto all’epidemia dei primi anni ’80. Era portato naturalmente per la rissa. Aveva una faccia sporca da boxeur già da piccolo, sempre segnata.
Un piccolo naso a patata e uno sguardo poco intelligente su una voce chioccia con una zeppola marcata nel parlare, accentuata dalle insicurezze verbali. Con un perenne finto sorriso alla Joker. Si eccitava alla vista del sangue che amplificava la sua cattiveria nel picchiare. Il suo punto di forza era la testata, con la quale metteva subito fuori combattimento il suo avversario in quei testa a testa tra galli che erano i confronti/scontri dei più duri. Ricordo di una nostra trasferta a pallone ai giardinetti della basilica san Paolo, quella che in quegli anni Bertolucci aveva appena filmato nella sua “Commare secca” di Pasolini, dove fu portato più che per le sue dubbie capacità calcistiche, per la sua tranquillizzante presenza, per noi, quando ci si allontanava dai territori sicuri. Tornammo vincitori. Sfottenti e cantanti su coloro che ci avevano sottovalutati.
E una volta mi graziò. Non ricordo per quale motivo ebbi a contendere qualcosa con lui. Fu forse durante o a ridosso di quelle periodiche miniolimpiadi che organizzavamo per evadere la monotonia delle infinite sfide a pallone e che essenzialmente si riducevano a contestatissime gare raffazzonate di salti lanci e corse. Feci orgogliosamente il finto sicuro, ma dentro tremavo. Probabilmente anche fuori, perche lui mi guardò con quel suo sorriso da eroe negativo dei fumetti e dandomi una spinta mi allontanò con la falsa misericordia di chi non vuole sparare sulla croce rossa.
Poi c’era la befana aziendale. E per mesi si giocava con gli stessi giochi. La cerbottana multipla, il fucile ad elastico, le biglie venivano immediatamente sostituite da plotoni di fucili Bengala, i più fortunati, Bengalino i meno. Io ero tra i secondi. Ma anche il Bengalino aveva la sua efficacia e ne ebbi prova in pochi giorni. Funzionava con capsule di gomma rosse che non osavo sparare addosso ai compagni per le minacce con le quali i miei mi avevano terrorizzato. Finchè un giorno incontrai Mauro, un riccio robusto futuro endrixiano, ora factotum in una rivendita all’ingrosso di piccoli e grandi elettrodomestici, imprenditore incerto di se stesso. Anche lui viveva nella mia scala al sesto piano, di fronte a Franco, quello presente nella drammatica “fuitina” al laghetto della marana. Era più grande di me di un paio di anni circa, con un padre aspirante “vitellone” che, quando attraversava il cortile con divisa e borsa da tennista, sembrava uscito da un film di Risi. La madre, amica della mia, mi affidava a lui come un fratello minore. Mauro mi chiese in prestito il fucile per provarlo. Si mise in piedi, dietro le stretta entrata del cancelletto che introduceva al giardinetto in discesa, Puntò il Bengalino verso le paffute cosce scoperte dai calzoni corti di Emilio, della scala B, passato presente e futuro da nazifascio/leghista/razzista, che tomo tomo ci veniva incontro sorridendo e ciondolando sulla sua già evidente obesità. E sparò. Fu un attimo. Emilio si piegò strillando verso la coscia dove un visibile rossore colorava la sua carne. Anche di fronte al dolore senza motivo, la sua natura gregaria lo faceva succube di chi riconosceva, nei valori della strada, in una posizione gerarchica superiore alla sua. E fece pippa.
Sul quel muretto di via Alessandro Severo 71a, come migliaia di altri ragazzini in migliaia d’altri muretti nelle città italiane, passai dalle figurine ai giornalini e da questi alla chitarra, che, su quella lastra di travertino gelata d’inverno e rovente d’estate, imparai a torturare torturandomi.
Quando gli ormoni iniziarono a circolare in maniera massiccia, ampliammo il territorio. Prima verso la Cristoforo Colombo, inaugurando la pazza cantina condominiale di via Giustiniano Imperatore, nell’enorme palazzone rosso a doppia U contrapposta, dove allestimmo in un grande locale sotterraneo la nostra prima umida isola della nostra sopravvivenza quotidiana. Umida oasi in cui allestimmo stereo, sala da ping pong e salone per le prime feste autoprodotte.
Mauro Paracini