Lasciami il fiato per dirtelo ora !
Lasciami il fiato per dirtelo ancora !
Lasciami il fiato per fartelo ora !
Lasciami il fiato per fartelo ancora !
Una bambina impertinente una bambina impertinente
Una bambina impertinente una bambina impertinente.
La musica molto alta, la finestra aperta, Kika scodinzolante lo guardava felice. Dal letto vedeva il secondo piano del palazzo al di là della strada, oltre i platani. La terza finestra, no, la quarta finestra era illuminata. Un vecchio in pigiama a righe guardava la pioggia cadere, Lucio lo vide bene, era l’unica stanza con luce in tutto il palazzo, beh, nella parte del palazzo che può stare in una finestra spalancata. In ogni modo, ‘sto vecchio guardava, guardava e scriveva, scriveva e guardava. Anche Lucio guardava, encefalogramma piatto e guardava i platani, conato di vomito e guardava Kika, sbadiglio e sveglia.
Otto e diciassette. Risbadigliò e cercò un buon motivo per alzarsi. Kika salì nel letto. Era un buon motivo, le scappava. Ritrovò sul comodino l’ultimo racconto rifiutato, iniziava con “Fu alla stazione di Bologna che la sentì per la prima volta. Pronunciò il suo nome, lentamente. Lo pronunciò lentamente…”. Vicino ai fogli sporchi di ogni cosa c’era la bottiglia di amaro. Vuota. Ne sentì l’odore ed ebbe un altro conato che lo svegliò completamente. Nello specchio del bagno un uomo con gli occhi marroni orlati di nero, i capelli neri corti appiccicati al cranio, un rosso naso aquilino e molti brufoli, lo guardava stranito. Si fece abbastanza schifo.
Era il suo compleanno. Il suo quarantesimo compleanno. Niente donna, niente lavoro fisso (lo scrittore non è un vero lavoro no?), niente auto, niente TV, niente amici, uno?, niente passioni. Solo Kika e un latente problema di alcolismo a tenergli compagnia.
Colazione latte e grappa, brividi lungo la schiena e lento, molto lento, verso i vestiti ammucchiati sulla poltrona della stanza da letto sporca e buia. Non era solo il suo compleanno, il quarantesimo, badate, non uno qualsiasi. Il quarantesimo. Era anche il primo giorno da ex-scrittore, il primo giorno da qualsiasi altra cosa, ma non lo scrittore. Lo aveva deciso insieme al signor Montenegro. Dopo l’ennesima sconfitta, finite le storie da raccontarsi, finite le storie da raccontare, cucite tutte le tasche. Solo vita, puzzolente e fredda. Vita e pioggia.
“Bastarda” disse metà alla pioggia e metà alla Kika. Mise il collare al piccolo meticcio, non ascoltò il groppo in gola, senza motivo apparente pensò all’ultima donna che aveva vissuto con lui in quella casa e al vecchio della finestra. Camminava piano sotto la pioggia, il cane correva qualche metro e si fermava ad aspettarlo, guardandolo con amore. In via Argentina si fermò, sotto l’insegna di una cartoleria, si guardava la punta delle scarpe. Inquietudine, ansia, tutto nella gola che si mischiava al sapore della grappa.
Lucio si sentiva come se fosse diventato monco, una parte di Lucio era morta. Queste passeggiate con il cane erano sempre state la palestra per scrivere. Usciva Lucio dalla porta, arrivava in strada ed era uno dei suoi personaggi. Provava a camminare come loro, a parlare come loro, a gesticolare… A essere come loro. Kika era complice, la sua migliore complice.
Ma era diverso, quel giorno.
Per esempio, durante queste passeggiate il clima era sottofondo delle storie, era colonna sonora. Anche per contrasto, per dire. Situazioni tristi in pieno sole, amori solari sotto piogge battenti o giornate di nebbia contorno a limpide vittorie. O viceversa.
Ma non quel giorno.
La pioggia entrò dentro Lucio, fin dal letto si era sentito bagnato. La lasciò fare. Alzò gli occhi e vide il vecchio. Stava con una tipa, dall’altra parte del viale, parlavano, no, lui parlava e lei ascoltava. Rapita. “Cazzo, sembra una clochard” pensò. Il vecchio color marrone autunno lo indicava, già, indicava Lucio, sicuro, lo stava puntando con quel suo dito stanco. Aveva lo stesso sguardo di due ore prima, alla finestra. Lo stesso identico sguardo, spento, ma fiammeggiante, se mi passate l’ossimoro. Poi il dito si alzava verso la punta dei platani malati e umidi, scendeva rasente il traffico e risaliva di colpo, in alto, oltre via Argentina. Lucio guardò il dito, si sentì un cretino e poi guardò il cielo. Niente aerei che cascano sui palazzi, niente fulmini, niente. Solo pioggia, gocce, nubi grigie e un passero, un piccolo uccello che cercava riparo.
Poi accadde. Sentì qualcosa scendere nel colletto, come un cubetto di ghiaccio, la vista si annebbiò, per pochi secondi. Pochi, ma pesanti come tradimenti. Fu Lucia, fu Uno, fu Gennaro, fu Valentina, fu Kika, fu una goccia fra le gocce e alla fine, solo alla fine, divenne finalmente pettirosso. Schivò le gocce, dominò il tempo e volò su, dopo aver avuto una gran voglia di non aprire le maledette ali…
Strizzò gli occhi, guardò il cane, in un minuto era nel suo appartamento. Prese i fogli bianchi dalla pattumiera e in trance scrisse: “Rumore. La risvegliò il rumore. Prima della prima goccia sui quattro strati di vestiti…”.