Gennaro/Uno non dimenticava tutto tutto. A volte la memoria si trasformava in una notte di San Lorenzo, lui aspettava guardando il buio e i puntini bianchi tremolanti, e un ricordo squarciava il nero con la sua lunga coda di sensazioni, sapori, odori, persone, erano ricordi diversi dai nostri. Il mondo intorno al vecchio cambiava consistenza, diventava IL ricordo.
Letteralmente, Uno diventava ricordo. Non sempre il protagonista. Qualche volta era spettatore inerme di avvenimenti passati, morti nella realtà dei fatti, ma vivi, come ragnatele nell’angolo di una stanza, che ci vivi per anni e poi le scopri e magari sono lì da prima di te. Altre ragnatele lo vedevano protagonista, allora lo trovavi a litigare con la sua immagine allo specchio, oppure che chiamava “ragioniere” il frigorifero.
Viste da fuori erano scene anche un po’ patetiche, sicuramente tristi, ma dentro Uno erano emozioni, sensazioni, ora grandine rovinosa e inaspettata, ora squarci di sole che prendono a calci le nubi della quotidianità.
Straniero dentro se stesso, Uno aveva la sensazione di essere tornato bambino, quel giorno al Fulgor, quando lo schermo cominciò a fischiare, poi le luci si spensero e la sala fu Texas e poi saloon, quindi strada polverosa e di nuovo sala da cinemino di provincia. Uno piccolino piccoletto che riatterrava sulla poltrona.
Forse Lucia gli ricordava qualcuno, nel modo di parlare o di gesticolare o chi lo sa. Non le chiese il nome, le parlò chiamandola Flavia. “Flavia smettila” così le disse, quasi sbottando.
“Flavia smettila. Non possiamo permettercelo, non ora, e neppure domani. E non me la menare con i soldi dei Buoni del Tesoro che già sai che non li posso e non li voglio toccare, in ogni modo. Non credo sia indispensabile avere questa cosa, come si chiama? Il televisore. La radio basta e avanza. Il giovedì si va in latteria e si guarda lì. Oppure andiamo al cinema”
“…”
Lei lo guardava mentre si accalorava gesticolando verso il suo carrello. Lo sguardo di Uno era cambiato. Uno era cambiato. Le pupille dilatate, il fiato grosso, le mani tremolanti. Era Gennaro. Gennaro mille gocce prima, Gennaro con l’ombrello per non bagnarsi, il contabile o il ragioniere. L’ordine, le cose spostate che lasciano il vuoto lì dove dovrebbero essere. Il senso di fastidio di Gennaro causato da quel vuoto. L’universo cartesiano di Gennaro, tremolante sotto la pioggia, come stupito davanti all’incognita fantasma che sbarella le certezze, gli equilibri, la stabilità. Può sembrare una cazzata, ma sono cose che ti spiazzano. Le metamorfosi, voglio dire. Cioè Uno, Gennaro e poi magari ancora Uno. Ti spiazzano e ti stupiscono. Prima ti stupiscono, poi ti spiazzano e in un punto qualsiasi del tragitto Uno-Gennaro-Uno ti affascinano. Soprattutto se sei sensibile allo stupore, se lo senti. Veramente però, lo vedi. Lucia lo vedeva. Esplodeva in un punto imprecisato fra pancia e gola. Banale, se vuoi, gestibile, si potrebbe pensare. Ma è il vederlo la fregatura. Vederlo, non solo sentirlo, avvertirlo. Vederlo. Non so se mi spiego. È un’altra cosa che ha a che fare con le tasche vuote, beh, non le stesse della poesia, ma lì vicino. Poi ognuno se la giostra come crede, se capite cosa voglio dire.
Quello che Lucia vide fu una bambina, o meglio il viso di una bambina. Scura, capelli come aghi di un riccio marino, neri neri, bella da paura. Le labbra… Le labbra sembravano due gemme, una piccola goccia appoggiata alla “v” disegnata dal labbro superiore rifletteva la luce. Una luce bianca lattiginosa tutt’intorno il viso. Non vedeva altro che quello, il viso di questa bambina, oppure guardava solo quello. E la visione sorrideva in diagonale, ripeteva una parola, senza voce, ma scandiva e si potevano leggere quelle labbra fantastiche
“R…..A”
“RESSA”
“RES…..RIA”
“RESPRA”
“RESPIRA!”
“…”
“…”
“RESPIRA, per Dio, RESPIRA!” Uno urlava.
Era di nuovo lui. Niente Flavia, niente ordine, niente tremolii, niente Gennaro.
Di nuovo Uno.
Uno di fronte a Lucia che ora, un centimetro alla volta, rivedeva i suoi occhi. Prima in quelli della bambina, e dopo incastrati in quel viso bianchissimo e un po’ malaticcio. Ma sorridente, nonostante stesse urlando e fosse preoccupato, quel viso sorrideva.
Comunque.