Gocce – 3/6

Lucia ne era sempre più convinta, guardava la finestra al secondo piano, quella gialla.
Se avesse avuto un orologio funzionante in mezzo alle lattine usate, agli stracci umidi nel carrello, se lo avesse avuto si sarebbe accorta del fatto che il vecchio attaccò esattamente allo scadere del decimo minuto del suo arrivo.
Era uno così. Aspettava li che non sembrava esistere, e poi tac! Aveva contato fino a 594, aveva tirato un respiro e a 600 aveva cominciato.
600. E cominciò.

“Se fossi un pettirosso appollaiato su quest’albero, non quello signorina, quell’altro più avanti di fronte alla cartoleria, spiccherei un salto ad ali chiuse, mi lascerei cadere per qualche metro, con il cuore in gola e una gran voglia di non aprirle mai le maledette ali, poi invece le aprirei e planerei dolcemente sfiorando la Clio gialla, zac! Rapida virata e accelerazione su. Socchiuderei le palpebre, a proposito le hanno i pettirossi, le palpebre voglio dire, le hanno? Beh, qualsiasi cosa avessi avuto, l’avrei socchiusa per non farmi accecare dalle gocce e avrei cercato, attraverso la fessura, il punto più alto di questa  città. Ha mai pensato, signorina, alle proporzioni? Voglio dire, per noi una goccia di pioggia è una macchia da 20 lire (se le ricorda le 20 lire con l’aratro?) sulla giacca, ma un pettirosso… Per un pettirosso una goccia è come un pallone da calcio per lei e per me. Per forza di cose devono avere l’abilità di evitarle, di infilarcisi in mezzo, di zigzagare, insomma, mi ha capito. Io credo avvertano addirittura le turbolenze tra una goccia e l’altra, la diversa consistenza dell’acqua, la temperatura che varia. Capisce, signorina, il punto più alto di questa città di merda. Stupefacente. Il più alto, badi bene. Capisce?”

Lucia non capiva, o meglio, intuiva. La solitudine si porta appresso di queste paranoie, e quello sembrava un tipico caso. La storia del pettirosso l’affascinava, in ogni modo.
La poesia si nasconde spesso nelle tasche delle città, o del tempo, o addirittura delle persone, anche se molto più raramente. Lucia avrebbe potuto rispondere forse un milione di cose, ma udì la propria voce dire: “E’ qui. Questo è il punto più alto della città”.

E poi, solo dopo aver assaporato le parole una ad una, guardò gli occhi del vecchio. Il vecchio nel vestito di velluto contò fino a 7.

…9, 10. E riprese:
“E’ proprio questo il punto. Non sappiamo mai quando ci siamo, in alto voglio dire. Prenda quella donna, quella con la pelliccia che corre verso il fuoristrada bianco, magari vola, magari i tacchi neri a spillo non toccano il terreno. Lo accarezzano, un’idea di corsa, una proiezione della fretta, una ferrea volontà di infilarsi tra una goccia e l’altra. Ferrea, signorina, ferrea”
“Oppure striscia” disse Lucia “e lotta contro ogni singolo granello di terra tra la pelliccia e l’automobile, un lento grattugiarsi tra il cielo e il sottosuolo. Tutto molto bello, se vogliamo…”

Poi tacquero.
Due idee di qualcosa, due intuizioni nel punto più alto della città.
La pioggia non raccolse la provocazione, la nudità di quei due io immersi uno nell’altra. Continuò a cadere. Sporca. Sporca e bastarda.

Quando anche per Lucia i secondi ripresero a picchiettare il selciato, chiese:
“Come ti chiami?”

Le mani del vecchio andarono istintivamente ai fogli di carta nella giacca, ma i suoi occhi si fissarono in quelli grigi di Lucia. Così disse la prima cosa che gli venne in mente.

”Uno…”
“Uno, come uno, due, tre. Uno così?”
“Uno” ribadì il vecchio.
“Uno…” disse lei. Non smisero di fissarsi. Non smisero, ma lo sguardo cambiò.

La prima volta che guardi gli occhi di qualcuno è forse un attimo di pura verità. Pura, merdosa, fantastica verità su quello che sarà di voi due, e di tutte le parole che vi direte, barlume riflesso della luce di quello sguardo. Poi cambia. Non sempre. Ma spesso. Molto spesso.
Lucia e Uno lo sapevano. Non avrebbero saputo dirlo, ma erano abbastanza vecchi e stanchi per saperlo.
Ma qualcosa negli occhi di Uno rendeva il passaggio difficoltoso, piacevolmente disagevole. Lo guardavi per la prima volta ed era uno sguardo nuovo nuovo, lì bello e pulito, due fanali che squarciavano una tormenta di neve, ma qualcosa di più. Che non saprei dire. Poi scemava. Ma se ti distaccavi per un po’ e poi ci tornavi, quello sguardo era ancora là. Tutto daccapo. Come un pacco regalo per tutti. Là che distingueva ogni singolo fiocco e te li sparava dritti in faccia. Doloroso, se vogliamo, ma una volta entrati era difficile farne a meno.

Per Lucia fu: sguardo negli occhi di Uno, vecchia Citroёn parcheggiata, ragazzo con cane, sospiro e di nuovo occhi di Uno”. Una tramvata nei denti.

Ci si immagina sempre la vita dei barboni come un concatenarsi di sventure, sporcizia, cattiveria e ancora sporcizia. Ma non è del tutto così. Non che sia acqua di rose, champagne e f**a. Questo no. Ma nelle loro tante tasche (ci avete mai pensato a quante tasche hanno? Pensate sia una necessità? Sicuri?) nascondono tante cose. Soprattutto in quelle vuote. In quelle vuote. Quelle dei ricordi, dei rimorsi, dei rimpianti, delle convinzioni e dei sogni. E della poesia. C’è. Garantito. Hanno paura a dirla, questa parola che evoca scuola e gobbetti romantici. Ma in una delle tante tasche vuote, in una delle loro inutili sportine, ci tengono quello. Furtivi si scambiano occhiate piene di intesa. Occhiate di non saper dare forma a tutta la loro paranoia. Poi, a volte, diventa tutta paura e schifo o volgari soldi. Allora li trovi in qualche androne che non si sveglieranno più. Oppure diventano avvocati e si trasferiscono a Milano.

Lucia andò a cercare in quella tasca, sapeva benissimo dov’era, non faticò a trovarla, ci rimestò dentro giusto qualche secondo, chiuse gli occhi, di nuovo si sentì contare, poi li riaprì. Uno era sempre lì vicino, dritto come un fuso. La guardava. Fisso negli occhi.

 

 

Gocce – 3/6 ultima modifica: 2012-02-27T09:40:43+01:00 da Manuel Galbiati

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