Un podio. Su quel podio qualcuno trionfa. Gioisce e festeggia. E’ osannato e celebrato dalla folla, dalla giuria, da parenti e amici: da tutti, insomma. All’ombra di quel podio qualcuno pena, si dispera, si ripiega su se stesso, si dibatte, giace, se ne va perdente; in quel frangente vinto.
La folla invoca il nome del vincitore. Tutto è per lui: la gente, la gloria e la fama, il tempo, il sole, le ore e pure il vento, che scarmiglia i capelli e rinfresca i pensieri.
Fermo immagine.
Messa a fuoco.
Una domanda: Che ne sarà di colui o colei che non è salito o salita sul podio, ma se ne giace ai suoi piedi sconfitto e deluso?
Chissà che ne sarà di lei, di lui.
Arranca, annaspa, geme, freme, trema, rantola, striscia, urla, piange, grida, latra, guaisce…Non si regge in piedi, non cammina, passa rasente ai muri, una morsa forte e stretta allo stomaco non gli dà pace. Non sa dove guardare, non sa che cosa fare. Nell’animo un dolore atroce lo porta a nefasti pensieri, a infelici propositi, non vuole più combattere, non vuole più gioire, non vuole più guardare la propria immagine riflessa in uno specchio, non vuole più gareggiare, non crede più in nulla, non crede più nel proprio talento, nel proprio impegno… vuole soltanto scordare, persino il suo nome. Si vuole annientare.
Il tempo in cui lui o lei giace in simile stato è una variabile umana, molto umana, può durare giorni, settimane, mesi o, nei casi più estremi e drammatici, tutta la vita che resta.
Il tempo dell’afflizione è oscuro, opaco, ha un suono sordo e muto, un sapore acre e rivoltante. E’ un salto in uno strapiombo. E’ uno strisciare nel fango, nella melma, nel magma dentro le viscere della terra. E’ non-vivere, è non-sentire, è non-interagire con il resto del mondo, è non-nutrirsi e pascersi, è annientarsi. Finire. Svanire.
Flavia Todisco