Chi si porta addosso il fardello di un nome scomodo, sa bene di cosa parlo.
Ovviamente come tutte le convenzioni umane, un nome non è in assoluto un bagaglio difficile né in tutti i tempi né in tutti i luoghi perché risente della mentalità, delle mode, ma anche della storia e del luogo in cui vive il soggetto che lo porta e con esso si immedesima.
Non tutti i nomi trovano posto sul calendario tra quelli dei santi o apostoli o quant’altri resero il proprio benemerito o sono contemplati nel libro dei nomi, quelli che forniscono ai genitori un elenco generoso dal quale attingere; se poi nella terra in cui si nasce un nome ha subito per via della tradizione un ritmo di crescita eccessivo, il rischio di portarsi addosso una storpiatura dello stesso è notevole. Ma procediamo con ordine.
Tempo fa la Sicilia era inflazionata dal nome Salvatore e da tutte le sue possibili varianti che solo la creatività popolare poteva suggerire servendosi di diminuitivi e vezzeggiativi. Gli esempi letterari non erano e non sono a tutt’oggi mancati, dai Turiddu ai Salvo di più recente confezione.
Era inoltre inveterata la tradizione di dare al primo figlio il nome del nonno o della nonna paterna, se femmina; presumo che il meccanismo avesse raggiunto quindi livelli parossistici al punto da suggerire, ai genitori di nuova generazione, escamotage per sfuggirvi.
Le madri e i padri che speravano di potersi sottrarre alla tradizione incontravano fiere resistenze tra orgogli feriti e insoddisfazioni cocenti da parte di chi si vedeva sottratto un inveterato diritto, erano quindi costretti a cercare almeno una variabile a quel nome inflazionato che in qualche modo mettesse tutti d’accordo.
I risultati della ricerca si rivelavano il più delle volte assai infelici. Le vittime delle storpiature o dei tentativi se rimanevano nella propria terra d’origine non ne soffrivano perché sperimentavano come normale la nuova prassi, ma chi l’abbandonava per il continente, bè, correva quanto meno il rischio di doverlo ripetere più e più volte durante le presentazioni o di rispondere con un certo imbarazzo alla banale domanda – Come ti chiami?-
Ho incontrato molti meridionali nel continente, non tutti emigranti, ma spesso spiriti eclettici ed inquieti alla ricerca di novità, di affermazione, di fuga dalla prigionia dei confini locali; tutti però con qualcosa in comune: un nome scomodo, un nome da modificare, un nome da rendere adeguato alla nuova geografia, per sentirsi parte di quella nuova territorialità che, come per la storia di ogni popolo, conserva usi, costumi e tradizioni anche nei nomi da attribuire alla propria progenie.
Gli antichi Romani ritenevano che il nomen si facesse omen, portatore cioè di un presagio inviato dagli dei e che quindi nel nome di ciascuno vi fosse un che di magico, un segno premonitore, un destino. Dobbiamo allora un po’ più di rispetto al nome che ci viene assegnato per quel segno che si porta dentro e che, come nella migliore tradizione mitologica, è inconoscibile e immutabile?