Buio.
Odore acre di disinfettante, buchi sulla pelle.
Dov’è finito quel coperchio della macchina da scrivere?
Lampi di passato felice, colori tenui rotolano nella stanza.
Non c’è più il divano marrone su cui ci addormentavamo abbracciati e soli.
Noi due e nessun altro.
Ti saltavo in spalla e ti baciavo il collo, prendevamo il furgone ed andavamo al parco a correre, a giocare, ci divertivamo come bimbi inseguendo qualunque cosa.
Fino a quel giorno, fino a quei nitriti isterici che mi terrorizzarono e allora non volli più saperne di quei prati,
ma tu non mi negasti mai un fazzoletto d’erba verde smagliante.
E io ti amavo.
Attendevo il tuo rientro come il sole, sapevo che eri tu già dal semaforo del viale e poi me lo confermava la portiera sbattuta forte e quando l’ascensore si fermava al quinto piano cominciavo a sorridere e a vederti al di là del muro.
Fissavo la porta annusando il tuo umore, sapevo quando starti vicino e quando aspettare, ma, in realtà, il mio ardore era sempre d’intensità totale.
Anche ora sento ciò che provi, hai paura, non sai come sarà la tua vita da domani, non sai se oggi mi porterai da lui.
Forse tenterai un estremo rimedio o rimanderai, schiantandoti sconfortato sul tavolo, lasciando ciondolare la mano nel vuoto.
Forse cercherai di comprendere la fine, classificarla nel percorso della vita, cercherai conforto nei miei fratelli o in tua moglie, ti infurierai contro un dio immanente stringendoti alla mia foto rielaborata a spirito.
Vorrei avere la forza di avvicinarmi a te ora, ma mi vergogno della mia paura, e poi sto ripetendo un mantra che mi insegnò mia madre prima di essere falciata da quell’auto azzurra, una litania di fuga da questa normalità malata, un percorso luminescente diretto all’illusione.
Ti amo, ti amo ancora con tutte le forze che mi mancano.
Ti prego di conservarmi nel tuo inconscio assumendo pose mie, fai che io affiori al tuo ricordo mentre apri una porta con la maniglia a pulsante, mangiando sashimi di tonno scartando le verdure che colorano il piatto, avvolgendo un gomitolo di lana mentre reciti ripetutamente il tuo monologo.
Fui nel tuo destino da sempre, da venti anni prima che nascessi, nei nomignoli che tua zia ti affibbiava.
Strani percorsi che da quel vaso in centro arrivarono a quel piumino rosso e blu in cui mi accogliesti quasi con insofferenza, forse con la paura che l’amore suscita nel manifestare i limiti alla tua vecchia vita.
Ora sono stanco, ti vedo, ho ancora bisogno di te, ho bisogno del tuo aiuto.
Il dolore mi sta stremando, accarezzami portami via, abbracciami per l’ultima volta, avvolgimi nel nostro maglione scuro striato dal rosso del mio pelo, abbi la forza di salutarmi.
Mi addormenteranno e non sentirò più dolore, ci sarà un attimo di luce antica in cui, anestetizzato e libero, potrò guardarti ancora con gli occhi dilatati, sentire il tuo profumo ed accennare delle fusa lievi.
Ti amo e tornerò da te come fece mia madre attraverso un sogno che mi scaldò in molte notti lunari.
Ecco sì stringimi così, non lo sento il freddo dell’acciaio, ci sei solo tu, ci siamo solo noi, lecco la tua mano ancora una volta, sai di buono.
Ora chiudo gli occhi.
Scusami se non ti dico miao.
Marco Berrettini