Sembra un ritratto uscito dalla fantasia di un narratore dell’ottocento. In verità la realtà era molto più pittoresca.
Quando sono arrivato a Vaglia e facevo visita, su a Pinati, alla Checca, mi sembrava di cambiare secolo. Per gli odori, di fumo, di sterco di mulo, di candela… Nel canto del fuoco, mentre fuori nevischiava, ascoltavo i racconti di una vita dura e spartana e, quando era il tempo, con dispiacere mi distaccavo da quell’umanità ruvida e schietta.
Mi voleva un gran bene. Non ho mai saputo perché. Ma anch’io a lei E a me piaceva entrare nella sua cucina, buia come una grotta, a discorrere con quella vecchina, risegata dagli anni e dai disagi.
Con in mano un pentolino, appena tolto dal treppiede sul fuoco, mangiava la sua misera minestrina senza quasi più denti. Ti ci voleva un po’ di tempo, quello sufficiente a dilatare le pupille degli occhi, per vederla raggomitolata al buio del canto del focolare. Vestiva degli abiti cenciosi che penso non avevano mai visto il ferro da stiro. Nemmeno antiquati: senza tempo.
Di lei mi piaceva la sua schiettezza. Era diretta e tagliente nei suoi giudizi, come penetranti erano i suoi occhietti.
Francesca, detta Checca, abitava a Pinati, quando ancora non esisteva la strada omonima ma la sola località. L’ultima casa della Fattoria. La più lontana dalle comodità. Di là nelle serate di inverno Gino, della Checca appunto, il figlio, calava a Vaglia a piedi a fare la partitina a carte. Con trenta centimetri di neve, passava dalla “Querce”, dove ora abito io, e prendeva il sentiero che portava alla cascina, che andò incendiata negli anni ’70. Anda e rianda una bella sfacchinata.
La famiglia Polli era matriarcale. Perché quella donnina microscopica giganteggiava sul marito Ciano e sui figli. Comandava lei con rispettata autorità.
La Checca assisteva, ma forse è meglio dire organizzava, la figlia Cesira, demente e malata di epilessia. Una volta, quando erano già tornati a Vaglia, nella casa del Campani, la Cesira quasi moriva affogata nella fonte di là della strada. Le venne il mal caduco proprio mentre era indaffarata sulla pila dell’acqua.
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La Checca e la famiglia Polli
Ditta Ferroni & C
Ferrava i cavalli e i muli. Faceva il maniscalco.
La fucina era ancora in piedi, sul retro del Comune, quando sono arrivato a Vaglia. Inattiva da parecchi anni. Sarà venuto da questa sua attività il nome? Può darsi visto che di cognome, invece, faceva Adoni.
Aveva di sicuro anche un altro soprannome: il Feroce. Era il padrone e gestore del bar, ora detto “Il Cantuccio”.
Primi anni sessanta. Gli apparecchi televisivi a Vaglia erano rari come i can gialli. Uno troneggiava in alto sulla mensola nella parete dell’esercizio del nostro e attirava gran pubblico che si ammassava tutte le sere come al cinema. Si racconta che Il Feroce non tollerasse troppo gli schiamazzi. Così quando la confusione saliva troppo, vuoi per il tifo a favore di un partecipante di “Lascia e Raddoppia”, vuoi per inveire contro il ciclista avverso, il Feroce, senza agitarsi, muoveva verso lo scatolone animato e… girava la manopola di bachelite. Pluff…le immagini erano risucchiate al centro e lo schermo diventava buio…
”Tutti a casa!”. Sul più bello…ma nessuno rifiatava.
Io non l’ho conosciuto. Se ne era andato al cimitero prima che arrivassi. Ho trovato invece il figliolo, Berto, che aveva ereditato l’attività, che conduceva con la moglie Adriana e di rimbalzo con il figlio Filippo, detto, dal nonno, Nocciolino.
Primo mio impatto con la gestione. Esco dal portone del Comune, appena rivestito da guardia, divisa nera (mi sono guadagnato anche il nomignolo di Maresciallo Kesserling), stivali da moto, che per Vaglia era un esotismo, e mi dirigo in direzione del bar, che dista poche decine di metri. Accanto alla porta c’è una seggiolina di legno, di quelle pieghevoli, da bar appunto, su cui giace una bacinella di plastica. A guardarla meglio mi assomiglia tanto a una vaschetta di frigorifero un po’ sbeccata. Dentro due, tre filetti di baccalà a mollo. Già, oggi è venerdì. Leggi tutto →
Vaglia 19 Ottobre
“Serravalli?”. “Sììì…?”
“Tolmino?”. “Sììì…proprio io?”
Il detto “voglia di lavorare cascami addosso”…l’hanno coniato il giorno che venne alla luce Tolmino.
Era da poco passato il fronte. I tedeschi avevano distrutto tutte le infrastrutture sulle vie di comunicazione. Ne aveva fatto le spese anche il ponte sulla Carza a Vaglia, sulla provinciale per Bivigliano.
All’ufficio di collocamento: “Serravalli, una buona notizia, c’è da ricostruire il ponte, sei disposto a lavorare?”.
“Bah…non l’ho mica buttato giù io?”
Un’altra volta un contadino, mi pare del Pozzolini, ma potrei sbagliarmi, gli chiese: “Oh Tolmino, che mi dai una mano a mietere il grano? Pagando naturalmente”.
“Senti…per questa volta guarda di fare da solo. Per un’altra volta …seminane di meno”.
Com’è, come non è, un bel giorno me lo ritrovai collega. L’avevano assunto come netturbino. Andava dietro al camion della nettezza del comune, a buttare da dietro il sudicio dentro l’antro tritatutto. Allora la raccolta era porta a porta. E c’erano sacchetti di rifiuti, secchi di cenere che venivano dalla cucina economica, scatoloni…e carrozzine. Sì, Tolmino volava dentro di tutto.
Una volta, accanto alla porta di casa, c’era una carrozzina per bambini, vuota per fortuna, e lui la compattò nel camion.
Perché Tolmino, pur essendo un dipendente pubblico, andava a cottimo. Sarà perché quella era la gita e quando avevi finito il giro… finiva il lavoro. Sarà che aveva il lavoro sullo stomaco e non vedeva l’ora di rientrare, tant’è ci metteva una verve che non sospettavi in uomo che, a me pischello, sembrava già vecchio.
Un altro giorno dovette balzare tempestivamente sul predellino posteriore del camion, su cui si spostava per brevi tratti da una strada all’altra, perché rincorso da una massaia con intenzioni bellicose. Leggi tutto →
Hans Fontana
Sto esaurendo il novero dei personaggi e a breve mi troverò a secco di storie. Ma di un mio vecchio amico, che non ho più il piacere di vedere da tanto tempo, devo parlare.
Hans. Hans Fontana. Il babbo era italiano, lui austriaco.
Faceva parte della galassia di persone che, ai primi anni settanta, gravitavano su Selva Nera, da Paolo e Vanda.
Quando gli ero vicino mi emanava un’energia allegra. E dire che soffriva di terribili crisi depressive. Improvvisamente scompariva.
“Dov’è Hans?!”. “A letto sotto un monte di coperte”. D’estate.
Passava così, giorni e giorni, in isolamento. Totale. Perché in solitudine viveva comunque. In quei casi si chiudeva del tutto al mondo.
A quell’epoca avevo l’ufficio a piano terra. Una finestra dava sul piazzaletto dove ora c’è la fontana cecata. Sentivo battere ai vetri, mi giravo e vedevo lui, scalzo in canottiera a dorso della sua cavallina. Legava le redini della cavezza all’inferriata della finestra e con un sorriso aperto e solare mi invitava a fare due chiacchiere.
Non ricordo se venne prima la cavallina o la Ducati. Siccome un po’ stava a Selva Nera, un po’ scompariva a giro per il mondo, un po’ stava alle Croci, comunque sempre a monculi stava, aveva bisogno di un mezzo che si arrampicasse.
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