Il marina di Viola viene utilizzato come base investigativa dalla DIA. Durante un blitz notturno la polizia piazza delle microspie per dare inizio a una serie di intercettazioni nei confronti dei mafiosi
Ci recammo al marina e ci sedemmo in ufficio al buio, ad aspettare. D’un tratto, Alessandro annunciò: «Eccoli».
(…) un’auto lenta e silenziosa, procedeva a fari spenti. Dietro alla prima ne seguivano altre tre. «Accipicchia, quanti sono», mormorai. Chiusi il cancello e mi diressi all’officina. Quando aprii il portone una dozzina di occhi perplessi mi squadrò dalla testa ai piedi. Spano spiegò: «Questa è la signora Viola Ferrario, proprietaria del marina».
Imbarazzatissima, mi sistemai in un angolo, tentando di sembrare parte dell’arredamento.
La squadra, composta da nove uomini oltre Alessandro, si mise ad armeggiare intorno alle attrezzature senza degnarmi di uno sguardo. Tutti in piedi, intorno a un bancone da lavoro, estraevano vari oggetti dalle valigette che avevano portato.
Oltre a Spano, Casoni e altri due colleghi che conoscevo già, c’era un tizio sulla sessantina con capelli grigi e ricci, completamente vestito di nero, due giovanotti in jeans e maglietta scura con pistola e radiolina appesa alla cintura, un tipo con la faccia da teppista e uno rigoroso e distinto.
“Bell’assortimento”, pensai.
«Allora Beppe, è a posto l’attrezzatura?», chiese Casoni a uno dei due giovanotti, sollevando dal tavolo un aggeggio che a me sembrò il cappuccio di una penna biro.
«Perfetta, e di prima qualità. Guarda – fece quello indicando un punto fuori dalla mia vista – qui c’è l’allaccio all’alimentazione e da questa parte un bel microfono miniaturizzato». Snocciolò una serie di dati tecnici riferiti a potenza, raggio d’azione e non so cos’altro.
«D’accordo Beppe – tagliò corto Casoni – l’importante è che li piazzi bene, che non si vedano e si senta perfettamente».
«Sì capo. Sempre che Mimmo mi faccia entrare», rispose il giovanotto piazzando una bella pacca sulle spalle di quello brizzolato. «Eh, che dici, ce la facciamo?».
Mimmo, assorto nel controllo di una striscia di velluto nero contenente una specie di set da manicure, rispose: «Ci proviamo».
«Dai Mimmo, è solo un ufficio di merda, mica una cassaforte», lo canzonò Beppe.
«Sfotti, sfotti. Tanto il lavoro rischioso tocca sempre a me.
(…)