Atto d’amore 4/4

Il dottor Remigio era stato seduto immobile, come di marmo, nel salottino in fondo al corridoio dove c’era la sala parto. Il pediatra era un giovane collega che il dottore conosceva bene, e che, iniziando la sua attività, aveva collaborato con lui per alcune stagioni prima di ottenere il posto in ospedale. Gli aveva parlato francamente, con gentilezza, prospettandogli tutto quello che il vecchio medico già sapeva ed aggiornandolo sugli sviluppi della materia. La maggior parte dei quali non erano per nulla incoraggianti. Terminato il parto, al quale avevano assistito tre sanitari, per rispetto al vecchio collega, il pediatra era tornato fuori e gli aveva detto:

“Sua figlia sta bene. Il bambino, purtroppo, ha la sindrome di Down. Per ora non posso dire di più. Dovremo fare analisi ed esami approfonditi.” Il vecchio lo aveva ringraziato, comprendendo solo ora fino in fondo quanto dolore potessero provocare poche, semplici, ragionevoli parole. Poi era entrato nella sala parto, dove Giannina si stava riprendendo con straordinaria rapidità, tenuto conto della situazione. Aveva già in braccio il piccolo, che dormiva, rivolgendo un timido sorriso al padre:
“Vorrà bene anche a te.”

Il dottor Remigio era dovuto uscire, cercando un luogo dove trovare un po’ di sollievo. Lì dentro, in tutto quel bianco che gli era così famigliare, gli sembrava di essere in un deserto. Non vedeva nessuno.
Camminando, si accorse che ora faceva meno fatica, come se i suoi organi si fossero rassegnati a quella violenza inattesa, ed ora lavorassero più disciplinatamente per aiutarlo a fare quello che doveva. Arrivò alla croce di pietra e guardò la valle, molto al di sotto, dove scorreva il torrente. Tutto sembrava così lontano. Guardò l’orologio e si rese conto che stava muovendosi da più di tre ore. Avvertì di nuovo il bisogno di urinare. Si avvicinò ad un albero, guardandosi intorno, ma non c’era anima viva. Dopo dieci minuti era alla casa, nel cortile, alla fontana.

Tutto come allora – ma stavolta era passato poco tempo dall’ultima visita.
Giannina era voluta tornare in montagna, dove si era sentita protetta dalla madre, forse pensando che questo avrebbe aiutato anche il piccolo. L’aveva accompagnata, i pazienti potevano aspettare, rivolgersi a qualcun altro, morire, non importava. Sua figlia aveva tenuto il bimbo in braccio più che poteva, facendogli godere raggi di sole, leggere brezze d’aria pulita, dandogli medicine, baciando e lasciandosi baciare dal piccolo, che sembrava non esaurire mai l’affetto. A volte lo portava in cortile e gli faceva bere l’acqua della fontana a piccole gocce; il figlio sorrideva felice. Ma respirava sempre più a fatica.
Era morto in silenzio, in braccio alla madre. L’avevano sepolto lì, nel cimitero di montagna, subito dietro la tomba di don Emilio, perché lei voleva che fossero vicini, che si potessero parlare. Il prete aveva tante storie da raccontare. Poi erano tornati a casa, in valle. Erano cominciate le notti di lacrime.

Una donna scese in cortile e gli disse:
“È passata sua figlia, forse un quarto d’ora fa. Si è fermata poco ed è ripartita. Saliva. Forse andava… al cimitero.” Disse l’ultima parola in fretta, come se bruciasse. Poi si allontanò con un cenno di saluto, scuotendo la testa.
Il dottor Remigio assentì e si rimise in moto. Ora si rendeva conto che il sollievo di poco prima era stata una illusione. Le gambe pesavano come piombo. Continuò a camminare, trascinando un passo dopo l’altro, finché arrivò davanti alla chiesa, allo stretto viottolo che la separava dalla canonica e conduceva al cimitero. Si fermò un istante e si guardò attorno. Davanti ad una casa vicina c’era un vecchio, fermo. Forse aveva visto Giannina. Il dottor Remigio fece per chiedergli qualcosa quando avvertì un dolore fortissimo al petto. Sapeva di cosa si trattava. Cadde lentamente a terra. Il vecchio lo guardò per un attimo, sorpreso, poi gli si avvicinò per vedere se potesse fare qualcosa. Ma ormai gli occhi del medico stavano rovesciandosi.
Sentendo la presenza umana vicina, il dottore mormorò, in un soffio: “Dite a mia figlia… dite… che le voglio bene…”

Giannina era dentro al cimitero. Salutò don Emilio con un cenno della mano, come se si fossero lasciati da poco. Posò alcune delle margherite davanti alla lapide, e fece un cenno con la testa verso la tomba di suo figlio. Il sorriso del prete sembrò comprendere.
Si avvicinò all’angelo di gesso – aveva voluto un angelo di gesso, bianco, sorridente – lo baciò e lo abbracciò. Posò le altre margherite a terra, disponendole come una piccola coperta. Poi affondò la mano in tasca e ne trasse la boccetta di pillole che al mattino aveva preso dall’ambulatorio del padre. La guardò. Girò il coperchio, aprendolo.
“È un atto d’amore” disse, a nessuno che l’ascoltasse.

Inghiottì le compresse, abbracciò di nuovo l’angelo, e cominciò ad attendere.

Leonardo Franchini

Atto d’amore 4/4 ultima modifica: 2017-03-10T08:58:24+01:00 da Inviati dai lettori

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